Come demolire un patto generazionale (postilla all’ultimo post)

di | 28 Marzo 2012

In risposta all’ultimo post ho ricevuto diverse mail: alcune di apprezzamento e altre di critica. Tra queste spicca la lettera di una persona appartenente a una delle categorie con cui me la sono presa, ossia un primario radiologo in pensione.

Purtroppo il primario non mi ha dato il permesso di riportare pari pari la sua e-mail (che, credetemi sulla parola, era piena di spunti molto interessanti). Mi limiterò a commentarne il senso complessivo, laddove la tesi sostenuta era la seguente: perché mai un primario in pensione non dovrebbe poter continuare a lavorare e portare anche nel privato la sua esperienza pluridecennale?

Semplice. La scelta di andare in pensione dovrebbe teoricamente presupporre un elemento personale determinante: dopo aver lavorato quaranta e passa anni il lavoratore, peraltro con ragione, ritiene di aver diritto al meritato riposo e sceglie di vivere in tranquillità e relativo benessere, qualora la pensione sia adeguata ai tempi, gli ultimi anni della sua vita. Il pensionato, per definizione, dovrebbe insomma essere un lavoratore stanco: dello stress, dei ritmi incalzanti e delle responsabilità. E poi la sua scelta dovrebbe far parte di un processo naturale, una specie di circolo della vita di disneyana memoria: fuori un lavoratore anziano, dentro uno giovane. Una scelta che di questi tempi, con la crisi che c’è in giro, ha il sapore di un patto sociale tra generazioni.

Se però il giorno dopo la pensione il primario ospedaliero, anzi l’ormai ex primario ospedaliero, va a bussare alla porta di una struttura privata, tutte le premesse sopraelencate vengono meno. La pensione non diventa più la ricerca del riposo del giusto, ma soltanto un modo come un altro per fare ancora più soldi con il doppio stipendio. Se un lavoratore sente di avere le forze sufficienti per continuare la sua attività può scegliere altrimenti: per esempio, decidere di non andare in pensione e continuare a lavorare finchè sarà in grado di farlo.

Allora io non dico che lavorare dopo la pensione dovrebbe essere vietato, per carità. Dico solo che se un primario ospedaliero, o qualunque altra figura professionale medica, vuole continuare a svolgere attività privata dopo la pensione, può farlo: ma nel mentre, semplicemente, la pensione non dovrebbe essergli elargita. Il vitalizio dovrebbe essere sospeso fino al giorno in cui, a Dio piacendo, il simpatico vecchietto alle soglie dei novanta anni avrà finalmente stabilito che il tempo del riposo è maturo.

Ma c’è un altro elemento importante da considerare. Prima accennavo al patto sociale di una generazione di lavoratori che si fa da parte per creare lo spazio ai più giovani: beh, per ogni primario in pensione che decide di continuare la sua attività c’è un giovane radiologo che in quella struttura privata non troverà accoglienza. Per cui voglio essere comprensivo e capire che può essere dura ritrovarsi ai margini della battaglia dall’oggi al domani e dopo una vita intera di responsabilità, ma questa è gente che ha vissuto la propria esistenza lavorativa nel paese di Bengodi: hanno diretto reparti di radiologia in tempi in cui la nostra disciplina era enormemente meno complessa di ora, l’hanno fatto senza nemmeno porsi il problema del management perchè all’epoca la gestione delle risorse era un concetto molto remoto e ancora di là da venire; sono stati primari per molti anni, qualcuno per decine di anni, e nel mentre alcuni di loro hanno già razziato tutta la libera professione razziabile in giro per le rispettive provincie; e in tutto questo la radiologia li ha superati senza che loro e ne accorgessero o provassero a opporre resistenza, limitandosi a galleggiare con le due o tre abilità da mestierante accumulate nel corso degli anni. Alcuni dei loro referti che si vedono in giro non solo solo sbagliati, che sarebbe già abbastanza: sono persino imbarazzanti, e contribuiscono allo spreco complessivo delle risorse laddove gli esami devono essere ripetuti presso altre strutture e da radiologi che sanno quello che fanno.

Non c’è rancore in quello che dico, credetemi. In questo caso racconto solo l’evidenza dei fatti: che poi i pazienti e molti amministratori, anche privati, non si accorgano della differenza, beh, su questo non so cosa dire che non abbia già detto nell’ultimo post.

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