Come maltrattare una ricetta medica (e vivere male)

di | 28 Gennaio 2010
Lo so per certo, perchè con alcuni di loro sono in contatto, che il mio blog è seguito da molti medici di medicina generale. E la cosa mi fa piacere: la medicina del terzo millennio o è collaborazione o è fallimento, lo dimostrano i fatti di ogni giorno.
Questo sentimento positivo, unito alle riflessioni che qualcuno di voi ha voluto condividere nei commenti agli ultimi post, mi spinge a sottolineare quanto segue. La richiesta di esame (o più correttamente proposta di esame, perché l’esame radiologico migliore per una data patologia lo decide il radiologo: è quello il suo pane quotidiano) per noi radiologi è molto importante.  Se il paziente non è ricoverato, e non possiamo consultare la sua cartella clinica, avere un’idea di come sta e che sospetto diagnostico si è costruito chi lo segue da anni è di fondamentale importanza.
Dunque, quelle quattro o cinque righe in cui si può esporre il quadro clinico e il conseguente dubbio diagnostico da confermare (mai da smentire, per carità: da confermare) vanno sfruttate; fino all’ultimo spazio bianco disponibile.
Quindi, comprenderete quanto ci rimanga male, diciamo così, quando nella richiesta/proposta mi tocca leggere (e capita sempre più spesso) la seguente scritta prestampata: Non vengono riferiti precedenti anamnestici di allergie o reazioni avverse a farmaci o mezzi di contrasto; sono lasciati alla diretta responsabilità del sanitario tutti i provvedimenti che tutelino l’incolumità del paziente sia durante la preparazione, sia durante l’esecuzione dell’esame richiesto.
E poi, in calce, vergato a mano in pessima calligrafia sullo spazio teoricamente dedicato ad altre informazioni (data, codici vari, eccetera), una frase generica tipo: Paziente in attesa di trapianto di fegato. Non altre indicazioni sul perché il paziente attenda un trapianto, su che patologie lo hanno afflitto e lo affliggono, sugli esami di laboratorio, su cosa ci si aspetta di trovare in quel fegato malandato.
Il punto è che quella frase prestampata è inutile e persino irrispettosa. Perchè come radiologo figuratevi se non lo so che il paziente è sotto la mia diretta responsabilità: sono io che ci capisco qualcosa di mezzi di contrasto e sulle loro possibili reazioni avverse, mica chi mi invia la ricetta. Perchè esiste un consenso informato che il paziente deve fornire al medico proponente: il quale dovrebbe solo informarmi dei suoi eventuali problemi allergici (ammesso che allergici siano) o di altro tipo, che poi al resto ci penso io. E perchè quella frasetta di circostanza non gli copre il culo, al medico di famiglia. Se il paziente cricca per uno shock anafilattico, e lui non mi ha segnalato nel foglio del consenso informato che il paziente è allergico alle api, per dire, mi sa che nelle pesti ci finiamo tutti e due.
E, soprattutto, perchè a me non interessa la frasetta di circostanza. Il paziente lo interrogo di nuovo, prima dell’esame, per ottenere il mio consenso informato: quello vero, quello che viene fornito al medico che eseguirà fisicamente l’esame e che lo avrà sotto tutela fino alla sua uscita dal reparto di radiologia.
A me interessa il resto, quello che viene vergato a penna, quasi distrattamente, in uno spazio bianco ridotto all’osso o in uno spazio rosso dedicato ad altro. Ed è l’unica cosa che mi interessa. Oltre, beninteso, a una telefonata: perché quando si ha un paziente difficile, e il paziente ti sta a cuore, la cosa migliore da fare è chiamare il radiologo e parlarne. Qualcuno lo fa, qualcun altro no.
La differenza, credetemi, sta tutta lì: in una frasetta del cavolo prestampata.
Ma è una differenza abissale.

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