Cronache del virus fetente #1

di | 17 Marzo 2020

Leggo ormai ovunque l’incipit delle recriminazioni, anche e giustificatamente di matrice medica, che accompagneranno la fine della crisi: non siamo eroi e non vogliamo essere chiamati tali, facciamo il nostro lavoro esattamente come lo facevamo prima, il buonismo delle persone spaventate che prima ci vessavano e ora ci applaudono alle ore 12 di ogni giorno, quelle stesse fino a ieri pronte a denunciare ogni nostro presunto errore o a distruggerci le ambulanze nel caso malaugurato di un lieve ritardo o a menarci, letteralmente, nei corridoi del Pronto Soccorso, disturba le nostre notti; e le lodi pubbliche dei politici che prima hanno spolpato la sanità pubblica e poi contribuito a delegittimare la classe medica ci fanno schifo, senza contare poi il fatidico ritardo di 10 anni per un rinnovo del contratto collettivo nazionale che ha portato nelle tasche dei medici pochi spiccioli al mese e molta umiliazione, e insomma tutto quel buonismo se lo possono infilare là ove non batte il sole.

Va bene, va bene tutto: a me basta rileggere i post di qualche mese fa per ricordarmi quanto fossi allineato ai miei colleghi che si lamentano di come sono stati trattati e di come, anche adesso, nel bel mezzo della crisi sanitaria più enorme dell’ultimo secolo, continuano a pagare un prezzo umano elevatissimo, materiale e morale. Ma adesso proprio non ci riesco, non riesco ad allinearmi anche oggi.

Oggi voglio pensare che tutto questo dolore servirà a qualcosa, che le persone comprenderanno la schizofrenia emotiva nella quale hanno condotto gli ultimi decenni della loro esistenza. Voglio pensare che tutti capiremo che i soldi al momento giusto non ci salvano la vita, che abbiamo un bisogno fottuto gli uni degli altri, che le frontiere esistono solo nella nostra immaginazione malata e che persino un virus di merda se ne fa un baffo, se gli viene l’uzzolo, figuratevi gli esseri umani. Voglio pensare che passata la bufera nessuno si dimentichi di quando applaudiva i medici e i sanitari ospedalieri, a mezzogiorno in punto come le campane della chiesa di quartiere, o di quando si cantava insieme dai balconi vicini, con nessun pubblico in strada ad applaudire o a scuotere la testa con disappunto, o di quando i condomini più giovani si offrivano di portare la spesa agli anziani chiusi in casa, lasciandogli le borse sulla soglia. Per una volta ancora, io che con gli anni sono diventato il re dei cinici, voglio illudermi che questa disgrazia contenga in sé un seme di rigenerazione, di speranza nell’essere umano, una scintilla di comprensione della sacralità delle nostre miserabili vite.

In attesa di quel momento dolcissimo in cui l’umanità cambierà direzione, uno dei pochi pensieri che la notte mi aiuta ad addormentarmi, io non faccio altro che resistere: non tanto alla fatica e allo stress, quanto alla mancanza di rapporti fisici con le persone. Perché è così: soffro a non poter stringere la mano di un collaboratore instancabile, soffro a non poter abbracciare l’ultima collega arrivata che mi aiuta nel drenaggio di un ascesso retroperitoneale con gli occhi che brillano di entusiasmo, soffro a non poter dire a tutti i miei collaboratori riuniti insieme, tecnici, infermieri, oss, segretarie (che stanno pagando il prezzo peggiore dell’epidemia), quanto io sia grato loro per quello che fanno ogni giorno, ogni-santo-giorno di questo tremendo periodo.

Ma gliel’ho già detto: quando tutto sarà finito, e avremo fatto la conta dei danni, festeggeremo insieme fino all’alba. Voglio che nessuno guidi al ritorno: meglio affittare un pullman per tornarcene, finalmente tranquilli, a casa.

Seduti uno accanto all’altro.

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La foto, non so se apocrifa, gira su internet da qualche giorno e racconta la storia di un medico dell’ospedale di Wuhan (o un infermiere, o un oss, poco importa) che di ritorno da una TC fatta all’anziano 85enne si ferma con lui a guardare il tramonto dopo un mese e mezzo di isolamento. Ripeto, non so se la foto sia relativa a quella storia né se quella storia sia vera. So però che mi fa piacere pensarlo, e quindi la condivido con voi.

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