Qualche giorno fa mi è capitato tra le mani un numero de La Radiologia Medica datato 2011, che all’epoca della pubblicazione doveva essermi sfuggito, il cui articolo di apertura era una curiosa riflessione sul referto radiologico a firma del dottor Edmondo Comino (Comino E. Il referto… e poi? Radiol Med 2011; 116:1153-1160): i radiologi appassionati di patologia toracica non faranno fatica a ricordarlo all’opera in vari corsi e congressi a tema degli ultimi decenni.
Il dottor Comino, in maniera per me assolutamente imprevedibile, nell’articolo condivide alcune considerazioni molto interessanti circa le modalità ulteriori del referto radiologico. Sarebbe a dire, in parole povere: cosa accade, e cosa non accade, dopo aver scritto e firmato un referto radiologico? Il referto radiologico, come ho ripetuto altrove fino alla nausea, in fondo è altro che uno strumento del processo di comunicazione medico-paziente: stilato in linguaggio tecnico, ne convengo, perché la materia ha modalità tecniche molto complesse, ma comunque un semplice atto mediante cui il radiologo comunica al paziente che è malato (o non malato) e quali caratteristiche peculiari abbia la sua malattia.
Il punto nodale della questione, dice però giustamente Comino, è che il referto scritto non esaurisce il dovere del medico: esiste infatti un articolo del nostro Codice Deontologico (art. 31), che sottolinea come rientri negli obblighi di ciascun medico il fornire al paziente tutte le dovute spiegazioni sul suo stato di salute; tenendo peraltro conto, che non è virtù di tutti, anche delle capacità di comprensione dell’interlocutore. Il che vuol dire, tradotto in linguaggio corrente, che il radiologo deve comunicare anche in prima persona, verbalmente, con il suo paziente. Quindi il suo lavoro di comunicazione non può e non deve esaurirsi solo tramite quel benedetto referto che, è mia personale opinione, per le sue peculiari caratteristiche di strumento comunicativo in linguaggio tecnico (perché materia tecnica è la medicina), non deve essere destinato al paziente ma al collega medico che ha proposto l’esame radiologico sulla base delle proprie considerazioni cliniche.
Insomma, il paziente a fine esame ha diritto di sapere cosa diavolo gli abbiamo trovato? Certo che si: è quello che tutti noi, credo, pretenderemmo al posto suo. E qualcosa, se lui ce la chiede, bisognerà pur dirgli. Da questa considerazione nascono però due problemi: che vengono entrambi sottolineati da Comino con spietata precisione. Uno: il tempo a disposizione. Mi rendo conto che i colleghi medici di altre discipline, quando arrivano nel nostro reparto e ci vedono seduti davanti alla consolle di lavoro, lontani dal paziente, nella penombra tranquilla in cui ci muoviamo, possano farsi venire il dubbio che il mestiere del radiologo sia un mestiere tutto sommato non di trincea, e quindi parecchio privilegiato. Quello che loro non sanno, però, è che appena prima e appena dopo la loro cortese visita noi facciamo la spola continua tra sala refertazione e sala diagnostica, e che nel mentre siamo oberati di telefonate, richieste di pareri e consulenze, discussione di esami urgenti da fare o programmare, segretarie che mendicano qualche minuto di attenzione, colleghi che hanno bisogno di un secondo parere e tecnici che ci chiedono supporto e attenzione. Pochi mestieri medici sono più caotici di quello del radiologo: e infatti la maggior parti dei nostri errori nascono proprio dalla frammentazione continua del lavoro. Tu stai per scrivere nel referto un particolare importante, qualcuno all’improvviso ti disturba e trac!, quando riprendi a lavorare il particolare ti è sfuggito per sempre?
Il secondo punto, ancora più fondamentale, è la preparazione specifica al colloquio verbale con il paziente: è un argomento che nelle scuole di specialità nemmeno viene sfiorato come se mai e poi mai un radiologo dovesse avere a che fare con uno di loro e la nostra intera carriera lavorativa si svolgesse in una torre d’avorio, davanti a un monitor e con un mouse in mano. E’ una miopia programmatica che ha radici profonde, le stesse che ci impediscono per esempio di aver già sviluppato un modello di refertazione comune a livello nazionale che non lasci spazio a variazioni sul tema degne di un jam session di jazz; è il retaggio di un’idea della Radiologia vecchia di un secolo e oltre. Mentre invece le modalità di un corretto colloquio con il paziente non sono scontate, non sono per tutti virtù innata e soprattutto si possono imparare; e persino il più scontroso dei radiologi nazionali, davanti a un paziente inndifficoltà, potrebbe essere in grado di cavarsela in modo adeguato (senza contare che il contatto diretto con il paziente, credetemi sulla parola, è il miglior deterrente da contestazioni medico-legali: i pazienti vengono indispettiti molto più dalla sensazione di essere stati trattati male che dall’errore compiuto in buona fede, e ammesso, dal radiologo).
Per cui la conclusione di Comino suona naturale e condivisibile: in un reparto di radiologia dovrebbero esistere orari fissi di disponibilità del radiologo per consulti verbali, al pari di quanto accade negli altri reparti ospedalieri. Sono però meno ottimista di lui sulla possibilità che qualunque radiologo sia disponibile a discutere con il paziente di un caso non affrontato da lui in prima persona: intravedo resistenze di fondo legate alle attribuzioni di responsabilità: e se l’esame per il quale sono chiamato a discutere con il paziente fosse stato eseguito con modalità tecniche che non condivido? Certo, potreste ribattere, in un reparto normale di Radiologia i protocolli di esame dovrebbero essere condivisi a priori: ma qui ci stiamo pericolosamente addentrando nella spinosa questione delle dinamiche dei gruppi lavorativi, che non c’entrano con l’articolo di Comino (che non posso non ringraziare per aver sollevato il problema) e quindi andranno trattati in altra sede e in altro momento.