Dopo il referto radiologico 3/3

di | 23 Luglio 2012

Completo con qualche settimana di ritardo, e non me ne vogliate per questo, la sorta di trilogia sulla comunicazione radiologica che avevo cominciato qui e sviluppato qui. Lo faccio recensendo un articolo di Massimo Bazzocchi, cattedratico radiologo di Udine: La comunicazione verbale medicopaziente: una grande opportunità nel futuro della radiologia. Radiol Med (2012). 117:339-353.

L’articolo si apre con una dotta riflessione sulla parola quale elemento divino che “realmente caratterizza l’uomo”: da cui la conclusione condivisibile che la parola, anche per il radiologo, non può che essere elemento chiave del suo mestiere. La prima critica che piove dall’alto riguarda chi si è finora occupato di teorizzare il referto radiologico: sforzo encomiabile, viene sottolineato, ma insufficiente. Perché in Radiologia la comunicazione, e fin qui siamo d’accordo, non può limitarsi a quanto viene scritto sul referto dal radiologo: il 22% dei pazienti, secondo una ricerca del Censis (2007), non si ritiene sufficentemente informato dalla pletora di informazione sanitarie che gli piove addosso da ogni parte.

Il professor Bazzocchi esordisce in principio toccando diversi punti nevralgici della questione.
1. Il paziente già dalla prescrizione si interroga circa la reale utilità della prestazione che gli viene prescritta.
2. Il paziente durante l’esecuzione delle prestazione radiologiche non vede (quasi) mai il Radiologo ma solo gli operatori non medici: il che lo rende una figura medica (quasi) invisibile.
3. Il referto scritto è sovente incomprensibile al paziente, specie da quando vengono adoperate classificazioni internazionali (BI-RADS in senologia, TNM e RECIST in oncologia) che per la prima volta da decenni permettono di quantificare con relativa precisione il problema fornendo informazioni al clinico nella sua stessa lingua madre.
4. Spesso l’indagine radiologica non è conclusiva, conduce ad ulteriori approfondimenti diagnostici o alle terapie corrette. Chi deve prendere in carico il paziente nella fase delicata che segue l’esame radiologico?

La risposta alle prime considerazioni è insita nelle domande stesse: il radiologo è un consulente medico e fornisce risposte a quesiti posti da altri. Il dibattito circa la reale utilità della prestazione che lui eroga è funzione di chi ha erogato la richiesta: che spesso di Radiologia capisce poco o niente. Da cui l’inevitabile chiosa: prima o poi, con buona pace di tutti e per gli evidenti vantaggi economici e organizzativi che la sceltà comporterà, saremo noi radiologi a dover regolare il flusso delle richieste di prestazioni radiologiche. Non da soli, beninteso. Il futuro, e in qualche isola felice già il presente, sono i gruppi di lavoro interdisciplinari: un’appuntamento nel quale i diversi specialisti si confrontano tutti insieme giungendo a conclusioni comuni, limitando gli errori di metodo e di procedura ed evitando al paziente di girare a vuoto per settimane a caccia prima dell’uno e poi dell’altro. In alcune realtà, come il gruppo interdisciplinare di patologia ORL del mio ospedale, le riunioni vengono espletate alla presenza del paziente: trovo l’esperimento innovativo, quasi rivoluzionario, e i risultati ottenuti in termini di condivisione delle scelte terapeutiche sono incredibili. E’ chiaro che lavorando tutti insieme, paziente compreso, anche il problema della comunicazione scritta o verbale viene meno: gli specialisti dell’area interessata hanno modo di parlare e chiarire le proprie posizioni; e poi, che sia uno solo di essi a parlare con il paziente o tutti insieme, il paziente ha agio di richiedere tutte le possibili delucidazioni in merito. In questo modo il referto radiologico riacquista la sua funzione primaria: che non è quella della comunicazione al paziente ma quella della comunicazione al medico che ha richiesto la consulenza radiologica. Il referto è solo una delle tappe che il gruppo multidisciplinare tocca prima di giungere alla conclusione diagnostico-terapeutica: e quindi perde valore anche la quarta osservazione, poiché il paziente è in carico al gruppo stesso, dunque a tutti gli specialisti che lo compongono. Insomma, la mia impressione è che si continui erroneamente ad affrontare il problema della comunicazione radiologica, scritta o verbale che sia, senza considerare che il futuro della medicina non sta più nel rapporto duale medico-paziente ma in quello plurale gruppo multidisciplinare-paziente, che i problemi li recide tutti. Fin dalla radice.

L’articolo prosegue con una interessante analisi dei vari perché della comunicazione. Il paziente, intanto, che specie con l’avvento della cultura della prevenzione (lo screening, soprattutto, ma anche le fissazioni individuali dei pazienti sani) pretende risposte immediate per ridurre lo stato di ansia che li ha condotti dal radiologo. E quindi il radiologo stesso, che spesso si trova di fronte a problemi di comunicazione perché, detto papale papale, non sa come comunicare con il paziente. Dice giustamente Bazzocchi che al paziente, oltre ai rischi connessi alle diverse indagini diagnostiche o diagnostico-terapeutiche che eroga il radiologo, dovrebbero essere spiegate con chiarezza ed empatia le possibilità di errore radiologico: quelle legate alla fallibilità del radiologo, che purtroppo è umana e pertanto entro certi limiti inevitabile, e alla percentuale di incertezza insita nel metodo, che invece esula dal radiologo stesso a patto che l’esame sia stato condotto con tecnica ineccepibile. Personalmente credo che il futuro del consenso informato vada proprio in questa direzione e non in altre. Quello che Bazzocchi purtroppo omette è che le modalità della comunicazione verbale, oltre e ancor più che quella scritta, non possono essere lasciate all’iniziativa del singolo radiologo, che l’empatia magari è in grado di esercitarla per virtù personali ma più spesso evita il contatto con il paziente come un gatto selvatico evita l’acqua (altrimenti forse avrebbe scelto un’altro genere di specializzazione, non la Radiologia). Le modalità della comunicazione andrebbero insegnate ed esercitate nelle Scuole di specialità: e per quanto io sappia di realtà locali (come la Sua) in cui agli specializzandi vengono insegnati i rudimenti fondamentali di queste modalità, nella maggior parte delle altre Scuole l’apprendimento è lasciato al caso o alla fortuna individuale. Il che, visti i tempi che corrono, è una leggerezza inconcepibile che mostra con chiarezza la estrema disomogeneità qualitativa e quantitativa dei corsi di specializzazione sul territorio nazionale, e quanto sia necessario lo sforzo comune per omogeneizzare la preparazione dei futuri radiologi.

Da qui la domanda: cosa comunicare al paziente? Rifiutare qualunque genere di informazione, anche se è comodo, non conviene perché la gestione clinica del paziente passa necessariamente attraverso le modalità della comunicazione diretta. Se vogliamo invertire la nostra antica direzione di marcia, che ci ha visto quasi sempre meri descrittori di immagini e figure mediche lontane anni luce dal paziente, e imporci come referenti autorevoli per lui e per i clinici, occorre compiere questo benedetto salto evolutivo e diventare finalmente radiologi clinici. Il che implica, per forza di cose, il contatto diretto con il paziente anche e soprattutto quando comunichiamo gli esiti della nostra speculazione intellettuale sulle indagini che lo riguardano. E’ chiaro, e Bazzocchi lo dice chiaramente, che in questa ottica andrebbero previsti spazi e tempi appositi: il mio sogno proibito è un’orario di ricevimento quotidiano, analogo a quello di qualunque reparto ospedaliero, in cui uno o più radiologi siano disponibili al colloquio con il paziente e/o i suoi parenti; magari forniti di uno spazio idoneo, perché come si fa notare più avanti nell’articolo è impensabile l’idea di poter instaurare un canale di comunicazione con il paziente stando in piedi in mezzo al corridoio o in sala di aspetto. E’ un servizio che in apparenza sottrae risorse al lavoro istituzionale, ma provate per un attimo a immaginare quali ricadute positive potrebbero esserci in termini di tempo risparmiato per il paziente, di liste lavorative ottimizzate e di contenziosi medico-legali. Le amministrazioni ospedaliere dovrebbero implorarci di ricavare spazi del genere, una volta compresi i vantaggi complessivi, ma finora tutto tace: il problema esiste solo quando raggiunge il famigerato Ufficio per le Relazioni con il Pubblico, e in genere si traduce in una colpevolizzazione ingiustificata del medico come se davvero fossimo in un esercizio commerciale qualunque dove il cliente ha sempre ragione.

Poi, è chiaro, tanto sta al buon senso delle singole persone. Per esempio, di fronte a reperti occasionali e palesemente benigni il compito del radiologo dovrebbe essere quello di rassicurare il paziente e fornirgli, quando è necessaria, la tempistica per l’eventuale controllo a distanza (che spesso non è necessario, e allora oltre al buon senso ci vorrebbe anche un bel paio di tommasei per saperci mettere la parola fine). Diverso è il discorso se il reperto non è chiaramente benigno o a rischio di possibile evoluzione: lo sappiamo benissimo, in ogni reparto si annida il fenomeno da baraccone con la cattiva abitudine di puntare il dito sul monitor e affermare, con aria grave, che la situazione è preoccupante. Salvo essere smentiti dai fatti, è ovvio: ma in genere questa categoria psicologica di radiologi, ossia quelli che associano l’allarme evocato nel paziente alla propria autorevolezza, ha la tendenza a evadere dalla propria cialtroneria e a riproporre ciclicamente il nefasto atteggiamento. Il paziente andrebbe rassicurato, se possibile, e in caso contrario gli va proposto subito un percorso da seguire per chiarire il dubbio. Saltare subito alle conclusioni se la situazione non è chiara, soprattutto esibendo un’aria grave e cogitabonda, è da cialtroni oltre che da incompetenti. Il che, portato alle estreme conseguenze, vale anche quando bisogna comunicare cattive notizie. I consigli di Bazzocchi (rottura del ghiaccio, mantenimento di un livello minimo di speranza, massima disponibilità personale e di gruppo) sono davvero fondamentali.

Le conclusioni dell’articolo sono quantomai condivisibili. Le corrette modalità di comunicazione riducono lo stress al paziente ma anche al radiologo, e consentono a quest’ultimo di riguadagnare campo là dove maggiormente l’ha perduto: nei confronti del paziente. Le modalità della comunicazione andrebbero insegnate nelle Scuole di specialità e magari in modo omogeneo sul territorio nazionale, preoccupandosi anche del background culturale umanistico dello specializzando e non solo di quello squisitamente tecnico: perché, come diceva Qualcuno, non di solo pane vive l’uomo. E infine bisognerebbe sensibilizzare le Amministrazioni ospedaliere, che spesso e volentieri rimangono prone di fronte all’incubo delle liste di attesa e dei contenziosi medico-legali: dimenticando che se vuoi evitare un’alluvione devi costruire una diga bella robusta; e costruirla a monte, magari, non a valle.

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