Fenomenologia del lavoro di gruppo radiologico

di | 17 Gennaio 2010

Fede, in un suo recentissimo commento al post “La spiegazione del colpo di genio” mette il dito su una piaga infetta del mondo medico: una di quelle, ne convengo, per cui Mater Morbi ha motivo e diritto di esistere.

(…) E soprattutto complimenti a tutto il tuo reparto, in cui si condividono gli errori e le buone diagnosi. Rarità, ti assicuro, visto che dove lavoro io è abitudine di molti appendere poster alla bollatrice per comunicare i propri successi, e si tengono comunicati stampa per divulgare gli errori altrui… (…)

Il problema, com’è noto, non è limitato all’ambito ospedaliero. E’ quotidianità di ogni ambiente lavorativo, e si potrebbe quasi dire di ogni rapporto fra esseri umani: solo che in un reparto ospedaliero da’ più fastidio. Perchè si lavora sulla pelle della gente, e spesso su quella dei colleghi. Perché si lavora in squadra, e la squadra è più spesso vincente del singolo. Perché in nessun reparto può nascere nulla di buono senza collaborazione tra colleghi: tutti facciamo buone diagnosi e tutti sbagliamo, dunque ognuno può trarre insegnamento dagli altri, nel bene e nel male.

Da specializzando ho vissuto anni felici, ma anche di grande perplessità. Ero partito credendo che noi giovani apprendisti, di tutti e quattro gli anni, potessimo definirci viaggiatori nella stessa barca; e invece non era così. Qualcuno mi accolse con cortesia, qualcun altro no. Qualcuno mi insegnò un pò di mestiere, qualcun altro no (qualcun altro, addirittura, cercava di farmi fare il meno possibile per motivi più o meno oscuri). Qualcuno era nelle grazie dei capi, e faceva di tutto per restarci, qualcun altro provava un piacere quasi masochistico nell’esserne fuori. Per chi, come me, voleva soltanto studiare e imparare e non perdere tempo nelle beghe inutili dell’ambiente universitario non c’era quasi scampo: o eri connivente o eri un anarchico, e in entrambi i casi qualcosa in te non andava bene.

E già all’epoca, nel corso degli anni, cominciai a sospettare che la cinetica dei gruppi lavorativi in un reparto radiologico potesse essere teorizzata per grandi linee: e che le mie teorie non lasciassero presagire nulla di buono. La cosa peggiore che inferii dalle mie vicende personali fu che in media i miei colleghi mi piacevano poco: perchè nella stragrande maggioranza in loro osservavo atteggiamenti di apertura e condivisione quando l’ambiente circostante era rassicurante e poco competitivo, e di chiusura e aggressività quando l’ambiente, viceversa, diventava teso e si sviluppava la lotta per il dominio del territorio (e la situazione ambientale, il più delle volte e per motivi che in questo momento preferisco non sviscerare, era davvero così estremizzata, sempre). Era davvero la situazione peggiore possibile perchè, potendo scegliere, avrei preferito (e tuttora preferirei) avere a che fare con un collega naturalmente cattivo: almeno saprei cosa aspettarmi, e il rapporto avrebbe solide basi di reciproca comprensione e rispetto dei confini. Con un nemico è difficile fraintendersi; con chi cambia atteggiamento a seconda dell’aria che tira è complesso rapportarsi: un amico può tramutarsi in un nemico mortale, ci vuole davvero un attimo di distrazione e sei fregato.

Il brutto è che in un reparto ospedaliero il clima non è differente: gruppetti, sottogruppetti, chi mira a un risultato professionale prestigioso, chi a lavorare il meno possibile, chi il più possibile, chi abbozza e poi si ferma, chi non abbozza e va avanti come un caterpillar, chi desidera la benedizione urbi et orbi dei propri successi lavorativi, chi cerca di stare nell’ombra per avere meno casini, chi cerca di far tutto, chi si lamenta perchè gli altri gli hanno rubato lo spazio vitale, chi pensa di essere bravo e incompreso, chi è bravo a bluffare anche sulla lunga distanza, chi crede che il suo destino naturale sia fare il primario, chi nemmeno ci ha mai pensato una volta nella vita, chi non sente apprezzato il proprio contributo alla collettività, chi non ha nessun interesse a darlo, chi si sente figlio e chi si sente figliastro. Un bel caravanserraglio, insomma: ma qualcosa l’ho capita anche io che sono duro di comprendonio.

La prima è che l’unica cosa a pagare in moneta sonante è il lavoro. Sono i colleghi a cui afferisce il tuo servizio che decidono chi è bravo e chi no: le autoreferenzialità contano ben poco, e durano il tempo esatto dell’esternazione.

La seconda è che investire sui rapporti personali conviene sempre: se nel mio reparto si riesce a comunicare, a fare fronte comune e a scambiarsi informazioni è perchè dietro c’è stato un lento lavoro di anni; un lavoro di formica e non di calabrone a cui in tanti hanno partecipato, con alterne fortune e alterni meriti. Certo, non si può pretendere che in un reparto di ventidue, ventitré medici tutto fili sempre in modo perfetto: c’è sempre chi si mette di traverso, chi difende strenuamente il suo metro quadrato di stress o di egoismo e chi si lancia nelle solite orazioni a stampo tribunistico. Ma sono casi isolati, perché in genere il meccanismo virtuoso si autoalimenta da solo, con i propri buoni risultati. E terzo, ho scoperto che siamo tutti uguali, tutti utili e nessuno indispensabile; eppure qualcuno, nel sistema, fa’ la differenza e senza di lui le cose sarebbero andate in un altro modo. Peggiore.

Insomma, io alla crescita di un gruppo lavorativo ci credo ancora; e ci credo molto. Non importa che sia un lavoro faticoso e che la fatica talvolta sia immane: altrimenti si fa prima a lasciar perdere, timbrare ingresso e uscita con regolarità impiegatizia, esporsi il meno possibile, diventare epicurei anche nelle pause del caffè. Ma è anche vero che a volte gli eventi la fanno passare, la voglia di costruire.

Ed è proprio a questo che forse serve, alla fine, il gruppo: a fartela ritornare.

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