Ho conosciuto il comandante Koenig

di | 3 Aprile 2015

Non so quanti voi abbiano la mia età e quanti, tra essi, abbiano avuto la ventura di seguire con la mia stessa inestinguibile passione, a fine anni ’70, la serie televisiva di fantascienza Spazio 1999.

La farò breve: nel 1999 sulla Luna è operativa una base lunare che ospita circa 300 persone. Inutile a dirsi, i due valenti sceneggiatori mostrano grande lungimiranza e immaginano la base lunare Alfa (questo è il suo nome, forse perché trattasi del primo agglomerato urbano extraterrestre) come nucleo di controllo della discarica di scorie nucleari che la Luna, nel corso dei decenni, è tristemente diventata. La serie comincia con una emergenza sanitaria senza precedenti: gli abitanti della base lunare sono colpiti da decessi improvvisi di cui nemmeno il responsabile medico, la brillante dottoressa Helen Russel, sa spiegare i motivi. E comincia, soprattuto, con lo sbarco sulla Luna del nuovo comandante (John Koenig, magistralmente interpretato da un volitivo Martin Landau): inizio coi fiocchi, visto che il suo predecessore russo è stato defenestrato proprio a causa dell’emergenza sanitaria. La quale, tra l’altro, rischia di compromettere la missione esplorativa sul pianeta Meta, situato ai confini del Sistema Solare ma inspiegabilmente ritenuto adatto alla vita umana (questa è un’altra storia. Se vi capita di rivedere la prima puntata, godetevi lo spettacolo del burocrate terrestre che cerca di convincere Koenig a non rinviare la missione: in tanti anni non è cambiato nulla, i politicanti da strapazzo ragionano con gli stessi miseri schemi mentali). Alla fine la discarica nucleare fa il botto: la deflagrazione è talmente violenta da spingere la Luna fuori dalla sua orbita e dare inizio a una vera e propria odissea degli abitanti della base Alfa, che passeranno il resto dei loro giorni alla ricerca di una nuova terra abitabile.

Il comandante Koenig, lo dirò subito, a tratti è insopportabile. Ha un brutto carattere, spesso rasenta l’arroganza e non da mai retta a nessuno. Il capo è lui e questo assioma, in tutta la serie, non è mai in discussione. Koenig maltratta gli scansafatiche, gli incompetenti e i reticenti: quando arriva lui, in qualunque settore della base, tutti scattano in piedi e si preparano al peggio perché le sue cazzolate hanno qualcosa di epico.

Ma il comandante ha anche pregi notevoli: intanto è uno che si assume tutte le responsabilità, sempre, e si guarda bene dal scaricarle addosso ai suoi collaboratori. Da bravo comandante ha nozioni scientifiche di rilievo (è astrofisico, mica bubbole, nonché membro dell’Amministrazione Spaziale Internazionale), sa pilotare i mezzi aerei in dotazione (le celeberrime Aquila) e ha all’attivo chissà quante missioni spaziali di successo. John Koenig è il classico comandante che preferirebbe un miliardo di volte affondare con onore insieme alla sua nave, piuttosto che farsi urlare via radio “torni a bordo, cazzo“; e semmai a urlare la fatidica frase sarebbe lui, ma a un altro. E quando le cose si mettono male, o finiscono bene, è uno di quelli che sa capire il momento e darti la pacca sulla spalla al momento giusto.

Un giorno, e non vi sfugga lo smaccato riferimento all’Odissea, la Luna finisce nell’orbita di un pianeta abitato da strane piante allucinogene e dominato da una potente entità senza nome. Viene immediatamente messa in atto l’operazione Exodus, i lunari scendono in massa su questo strano pianeta e appena ci mettono piede dimenticano tutto di sé e del loro passato: insomma se ne stanno lì, stravaccati, a spassarsela e a ridere come rincoglioniti per tutto il tempo (adesso che ci penso, questa è anche una metafora dei nostri tempi. Ma vabbè, ognuno ha i fiori di loto che si merita).

L’unico a rifiutare questa sorte indegna è proprio lui, John Koenig. Declina i pressanti inviti dell’entità senza nome, che intanto si è materializzata nelle vesti di una bellissima donna, e con lei si ingarbuglia in filosofemi bizantini da cui tuttavia non esce sconfitto nè piegato. Alla fine, quando anche il computer di bordo passa sotto il controllo dell’entità senza nome lui perde le staffe e colpisce il monitor di vetro con un pugno, ferendosi la mano. L’entità accorre per curarlo, ha già dimostrato in passato che il suo tocco è taumaturgico: ma Koenig rifiuta sdegnoso.

Perché rifiuti il mio aiuto? chiede l’entità.

Perché il dolore mi ricorda che sono ancora un uomo, risponde lui, sottintendendo la disumanità alla quale si sono abbandonati gli altri suoi compagni di viaggio; passando honoris causa, da che avevo appena otto anni, nel mio pantheon privato di personalità leggendarie. E legandomi per sempre, con le alterne fortune che immaginate, a quella idea platonica di come dovrebbe essere un vero capo: l’autorevolezza di chi ha fatto prima e meglio di te, e non l’autorità imposta dall’alto del cretino incompetente.

Perché vi ho raccontato questa storia? Perché l’altro giorno un mio paziente mi ha raccontato di quando fu operato e lui, pur patendo atroci dolori, non volle che gli fosse praticata alcuna terapia antalgica. Voglio sentirlo, il mio dolore, così mi ricordo di essere vivo, ha detto senza nessuna aria di sufficienza. E io gli ho creduto. Avrei voluto dirgli, a fine esame: Arrivederci, comandante.

Ma non sono sicuro che avrebbe capito cosa volevo dire.

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