Ho una promessa da mantenere

di | 6 Ottobre 2014

Oggi devo mantenere una promessa, certo. Ma prima devo raccontarvi una storia breve breve: quella di un uomo, si chiamava Pietro, che conobbi nel 2007 in occasione del suo primo cancro alla laringe. Avemmo a che fare, ci capimmo al volo: lui voleva fare i controlli solo con me e con nessun altro. Io, nel mentre, avevo capito di essere stato adottato: e, come dico sempre agli specializzandi, se un paziente vi adotta non fate resistenza, lui vi ha solo chiesto di percorrere un pezzo di strada insieme.

Pietro all’epoca guarì, perché a 65 anni aveva voglia di vivere ancora a lungo: avete presente quelle persone con un entusiasmo naturale, che si appassionano ancora alle cose anche se ne hanno viste di cotte e di crude? Ecco, Pietro era proprio così. Entusiasta.

Ma la sua strada sconnessa non era ancora finita. Qualche tempo dopo si ammalò ancora di tumore: al fegato, questa volta. Fu trattato, la malattia sembrava essersi fermata ma ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: Chissà quanto durerò ancora.

Pietro ha voluto fare i controlli con me fino alla fine. Quando si è sentito male, a metà agosto, mi ha telefonato al cellulare. Io gli ho detto che ero via, lui ha risposto che avrebbe aspettato il mio ritorno. Quando sono tornato, ed erano passati pochi mesi dall’ultimo controllo, la malattia se l’era mangiato. A morsi. In così poco tempo.

Non ha retto molto alla botta, Pietro. Ma non perché non avesse più voglia di vivere: è che anche l’acciaio ha un limite di resistenza alla rottura. Gli ultimi giorni, era ormai ricoverato in un ospedale della zona, ci sentivamo solo via what’s up.

Come sta, Pietro?

E lui: Stanco.

Finché le notifiche di ingresso a what’s up hanno cominciato a essere ferme alla stessa ora dello stesso giorno, e io mi sono preoccupato. Ma non conosco nessuno dei familiari salvo il consuocero, e non avevo altri numeri di telefono. Ho provato a chiamare il suo, ma il cellulare di Pietro era sempre spento. Conoscendolo, ho provato a cercare la sua pagina di Facebook: una volta tanto l’infernale strumento mi è stato utile perché Pietro una pagina ce l’aveva, e anche tanti amici. I quali erano preoccupati, proprio come me.

Finché, stamattina, la pagina è stata invasa da strazianti messaggi di addio a Pietro. Il quale, da bravo pilota quale era, alla fine ha preso il volo sul serio.

Io non so come facciano i miei colleghi, ma a me quando muore un paziente dispiace. Non ho ritegno: mi incazzo, perché non sono stato abbastanza un bravo medico o perché non sono stato disponibile come dovrei sempre e sempre e sempre essere. Piango, pure, perché mi sembra che le lacrime accompagnino con la dovuta dolcezza chi muore e facciano bene a chi resta: un po’ me ne vergogno, ma ragazzi, che ci devo fare, son fatto così.

Una delle ultime volte Pietro, che si era letto tutto il mio blog con una pazienza impressionante e ogni volta che ci vedevamo commentava gli ultimi post, mi aveva raccontato una storia. Parlavamo del degrado economico e sociale italiano e lui aveva narrato la storia di un imprenditore locale che aveva fatto fortuna negli anni 70. Come? Presto detto: all’inizio erano lui e un operaio e poi, a fine anno, invece di pagare le tasse, il cumenda aveva comprato un macchinario e assunto un altro operaio. A fine anno successivo stessa storia: tasse evase e altri due operai assunti, e avanti così fino a fondare un impero.

Morale della storia? Non quella che credete voi, perché Pietro era onesto ma conosceva bene l’animo degli uomini. Mi diceva: Vede, dottore, l’Italia è un paese che non si può governare come gli altri. Il mio amico imprenditore ha evaso il fisco ma ha dato lavoro a un sacco di gente e ha messo in moto l’economia. È vero, non ha agito onestamente, ma sarebbe stato meglio se avesse pagato le tasse fino all’ultimo centesimo senza dar lavoro a nessuno?

Non lo so, Pietro.

Nemmeno io, però la racconti lo stesso questa storia. L’Italia è un posto così, le cose funzionano solo se tutti rubano.

E così, Pietro, ho raccontato la tua storia. Sono ancora un po’ arrabbiato con te, perché tutto sommato un saluto, dopo tutti questi anni, me lo sarei meritato. Però poi penso che l’ultima volta che sei venuto a trovarmi ci siamo abbracciati forte, e in fondo anche questo è un saluto. O almeno così mi piace credere.

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