I Perona e la crisi del sistema

di | 10 Ottobre 2012

I Perona erano volumi monotematici prodotti dalla Scuola di Specialità di Verona ai tempi in cui il direttore della medesima era Gianfranco Pistolesi: persona della quale e sulla quale ho sentito raccontare di tutto, e non sempre in senso positivo, ma che sicuramente vedeva più lontano della stragrande maggioranza dei suoi colleghi. La prova l’ho avuta leggendo la prefazione del Perona sull’imaging diagnostico del cuore, datato 1983 ma che ancora potrebbe insegnare molto a radiologi che su un radiogramma standard del torace nemmeno distinguono una congestione vascolare polmonare da una interstiziopatia, nella cui presentazione l’autore affronta una serie di problematiche politiche, in ambito sanitario-radiologico, dell’epoca.

La prima considerazione assai degna di menzione, che trova riscontro nella triste attualità degli esordi di questo secolo, riguarda la trasformazione del medico italiano da professionista in dipendente. Pistolesi capisce subito quali inghippi si celino dietro questa svolta epocale della sanità italiana, e lo dice a chiare lettere: il professionista è costretto a guadagnarsi la sua clientela sulla base della qualità del proprio lavoro; il dipendente non deve più guadagnarsi nulla, il suo minimo sindacale è garantito qualunque sia il risultato raggiunto (quantitativo o qualitativo) e qualora la sua scelta professionale sia di basso profilo nessuno può più contargli le pulci.

Meravigliosa, oltremisura, la metafora calcistica: (…) immaginiamo per un attimo che le frontiere del Bel Paese venissero chiuse (…) all’esportazione dei calciatori e che, subito dopo, si stabilisse un Contratto Unico per tutti gli “Operatori calcistici”, quelli del grande Milan e quello della Pro Loco di Beccacivetta ivi compresi, ovviamente, i Custodi degli stadi, gli arbitri e i guardialinee. Non è il caso di soffermarsi sulla reazione del “Barone” Maradona, quanto invece su quella dell’operatore della Pro Loco: agguantato il Contratto Unico, gustata l’umiliazione del “Barone”, autoconvintosi che nulla differenzia il suo dribblare da quello di Zico, il nostro si tufferebbe nella degustazione dei propri diritti, puntando sulla riduzione dell’orario di lavoro (partite di 15′), sull’accurato calcolo delle ferie e dei recuperi; infine, sulla appropriata tariffazione relativa agli innumeri rischi cui è sottoposto (…): la zuccata sul palo, per quello calcistico, il bagno di radiazioni per quello medico (…).

Io non so come la pensiate voi sull’argomento, ma personalmente ritengo che una delle cause congenite dello sfascio del nostro Paese, piuttosto che in poco definibili congiunture economiche, stia proprio in questo atteggiamento mentale, parecchio sindacalizzato, secondo il quale i lavoratori dipendenti devono essere equiparati al rango di bovini: pensare poco, agire meno ed essere livellati rigorosamente verso il basso per qualità professionale e trattamento economico. E noi in apparenza siamo scandalizzati da questo atteggiamento mentale, ci diciamo convinti che la scelta è errata e che ai potenti di turno conviene di più il recinto dei bovini che una mandria di cavalli in libertà: le bestie sono più docili e si possono controllare con maggiore facilità. A volte ci lamentiamo dello stato delle cose, anche in pubblico, scuotiamo il capino e poi rientriamo docili nello steccato.

Quello che non abbiamo il coraggio di dirci, nemmeno nei sogni più inconfessati, è che lo stato delle cose ci va bene; anzi, benissimo. E sapete perché? Perché ci sgrava della tensione quotidiana, dell’ansia da prestazione e da risultato. Ci mette tranquilli perché non abbiamo bisogno di essere i migliori per guadagnarci il pane: la pagnotta a fine mese arriva comunque, uguale per tutti, che noi si sia fatto uno o si sia fatto cento. E poi, elemento non trascurabile, questo sistema tende a premiare il bovino più anziano: perché ha imparato bene o male a galleggiare nella fanghiglia e probabilmente non ha mai creato grossi problemi alla mandria e al suo padrone. E anche questo ci va bene, anzi benissimo: perché sappiamo che prima o poi qualche briciola della grande abbuffata arriverà anche nelle nostre bocche. Non riuscirò a diventare primario? Otterrò, per anzianità, una Unità Operativa Semplice: a prescindere dalle mie competenze professionali specifiche. E nel caso che qualcuno più giovane la ottenga, scavalcandomi nonostante le resistenze del Sistema, prima o poi mi sarà riconosciuta almeno un’Alta Specializzazione. Insomma, qualcosa in tasca mi arriverà comunque: e potrò sempre andare in giro a raccontare che quello più giovane mi ha scavalcato perché è un leccaculo. Questo sistema, fondato sui due pilastri del livellamento in basso e dell’anzianità di servizio, in un certo senso è la forma più democratica di progressione lavorativa.

Peccato, però, che questo sistema democratico di progressione lavorativa smidolli la spina dorsale del Paese e la faccia accomodare su sé stessa: perché senza più alcuna prospettiva autonoma di crescita e di miglioramento personale e professionale siamo tutti qui ad aspettare con gli occhi all’insù che ci piova qualcosa di buono addosso; meglio ancora se a procurarcela è qualcuno che sa come va il mondo, insomma, un qualunque uomo della provvidenza.

Ecco perché mi sembrano superflui e ridicoli gli intrighi economici, le politiche europee, i parlamenti corrotti, i banchieri al governo, le primarie con regole cambiate in corsa, i ladruncoli sudaticci e obesi da consiglio regionale, i vecchi satrapi immortali che considerano l’ipotesi di governare ancora a 80 anni suonati. Nulla potrà mai cambiare in Italia se non modifichiamo l’angolazione da cui siamo abituati a vedere la realtà dei fatti. E la realtà dei fatti è che questo modello perverso a noi italiani sta bene: non ci costringe all’impegno di essere all’altezza della situazione e ci lascia seduti ad aspettare che qualcosa succeda. Sapendo che prima o poi qualcosa, qualcosa di misero ma pur sempre qualcosa, arriverà anche per noialtri. Anche se non dovessimo meritarcelo, o a meritarselo fosse qualcun altro.

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