Il paese della disperanza

di | 4 Gennaio 2012

Una coppia davvero insolita: marito e moglie, indiani o comunque di regioni limitrofe. Lui con il caratteristico turbante e un barbone nero da asceta; lei giovane, sotto i trent’anni, eppure già con lo sguardo da ultracentenaria rassegnata al peggio.

Il problema ce l’aveva lei: un dolore costante a entrambe le mammelle, senza alcun apparente motivo, da cui la richiesta di ecografia mammaria. Faccio accomodare la signora; un attimo prima di iniziare l’esame lui si avvicina e mi dice, a voce bassa: Fai un buon esame mi raccomando, il ticket mi è costato 40 euro e io sono senza lavoro.

Quanto basta perché un medico si adombri, ritengo: io però non mi sono adombrato. Ho capito benissimo ciò che il marito indiano voleva dirmi, con quelle due frasi scandite in cattivo italiano: che quel ticket gli era costato un sacrificio immane, solo quello. Che quando sei senza lavoro anche un ticket di 40 miserabili euro può fare la differenza tra il mangiare e il non mangiare. E che proprio a causa dell’entità del sacrificio, probabilmente enorme per quella coppia straniera, bisognava che l’esame valesse la spesa. Ho capito, insomma, che quell’uomo non voleva mettere in discussione le mie competenze: solo chiedermi la massima attenzione, affinché i soldi del ticket non fossero stati soldi sprecati. E io sono stato zitto, ho annuito e ho condotto l’esame con la massima attenzione: ancora più del solito, se è possibile.

Alla fine, quando li ho congedati con una risposta per fortuna rassicurante, mi sono attardato un attimo alla scrivania. Pensando che è proprio triste quello che sta succedendo in questi ultimi anni in Italia: il paese che ha accolto nei decenni scorsi centinaia di migliaia, forse milioni di immigrati, e ha permesso loro di rifarsi una vita e di coltivare speranze per sè e per i propri figli, non esiste più. Sostituito da un luogo dove la speranza per il futuro, se non è già morta, è letteralmente agonizzante. C’è differenza, lo so, tra un ventenne figlio di buona famiglia che non sa se cominciare un corso di studi che forse non lo condurrà da nessuna parte e un ragazzo di colore che mentre sto mangiando un toast, in un bar nel centro, mi chiede se ne pago uno anche a lui perché ha perso il lavoro da due mesi; ma meno di quanto si potrebbe credere. Perché le due storie, apparentemente così diverse, hanno un denominatore comune: l’assenza di speranza per il futuro.

E allora ridatemela indietro, quella vecchia Italia delle barcarole strapiene di albanesi che sbarcavano sulle coste adriatiche in cerca della loro personale ammerica. Ridatemela indietro: perché, qualunque sia il vostro punto di vista sull’immigrazione degli stranieri, e so per certo che alcuni di voi hanno opinioni abbastanza drastiche sull’argomento, è meglio vivere in paese che agli stranieri regala una speranza che in uno in cui la speranza l’abbiamo persa anche noi che ci siamo nati.

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