Il trasformista di Jesolo Lido

di | 4 Giugno 2012

Vi scrivo da Jesolo Lido, in un pomeriggio nuvoloso di inizio giugno. La spiaggia è semivuota, sotto il cielo plumbeo solo qualche mamma seduta a guardare il suo bambino che sale e scende dallo scivolo colorato che lo stabilimento balneare ha sistemato da pochi giorni sul lungomare. Vengo qui tra maggio e giugno ogni anno, da sedici anni. Ossia da quando conosco mia moglie: sua madre possiede un appartamento e lei sotto questi ombrelloni è praticamente cresciuta. Ogni decisione importante, dove andare a lavorare, se sposarci o meno, se e quando fare un figlio, è stata presa camminando sulla sabbia di Iesolo. Dove il mare non è granché, ne convengo, ma almeno è vicino a dove abitiamo. E poi è una spiaggia comoda per i bimbi. E poi c’é il valore affettivo del luogo in sé, insomma.

Frequentando la stessa spiaggia e lo stesso mare da sedici anni, come immaginate, ho incidentalmente visto crescere una generazione intera di ragazzini: all’epoca erano adolescenti, adesso sono uomini. Qualcuno si è fatto una famiglia, qualcun altro un lavoro, qualcuno ancora la macchina: ma si rincontrano ogni anno sulla spiaggia e nei loro occhi leggo sempre la gioia pura dell’amicizia che è sopravvissuta all’ennesima gelida stagione invernale. Si sistemano sempre nello stesso posto, sotto la torretta del bagnino, si aggiornano sui fatti accaduti negli ultimi mesi, ridono e parlano. Ogni tanto il solito romanticone, sempre lo stesso, afferra una chitarra scordata e si mette a suonare (male, peraltro; e poi attacca sempre con la Canzone del sole di Battisti, che sinceramente a noialtri amanti del rock progressivo ha un po’ rotto gli zebedei. Senza contare che nessuno degli altri gli va dietro: si vede che sono stufi del buon Lucio anche i suoi amici).

Insomma, come sembra ormai chiaro io a quei ragazzi, pur senza avere stretti rapporti personali con nessuno di loro, sono molto affezionato: per me rappresentano l’emblema dell’inizio dell’estate. E poi li invidio bonariamente perché a me mancano le suggestioni che animano la loro inossidabile amicizia: i miei amici veri sono lontani, ognuno alle prese con problemi di vita familiare e lavoro e affetti più o meno in crisi; li sento solo per telefono e mai a lungo quanto desidererei. Della compagnia estiva dunque conosco quasi tutto: le storie d’amore iniziate e finite, i tornei di calcetto sulla battigia, la cura dimagrante di quello palestrato, il sedere disegnato con il compasso delle due gemelle (che sanno di averlo, il sedere perfetto, e non perdono occasione di farlo tacitamente notare alla spiaggia intera).

Eppure uno di loro sfugge al controllo. È un bel ragazzo alto e magro, dal viso regolare e gli occhi sornioni. Una volta era biondo, poi con gli anni è andato via via scurendo verso il castano (destino comune a tutti i biondi naturali, pare, anche a me). L’ho sempre visto con quell’aria vagamente scazzata di chi è al mondo solo per fare un favore a qualcuno; è dentro il gruppo fino al midollo ma al tempo stesso in qualche modo si mantiene tangenziale a esso. Se gli altri parlano lui prende il sole o legge un libro; se gli altri prendono il sole lui comincia il suo one-man-show di battute e monologhi con finale a sorpresa. Altre volte pianta in asso tutti e va a fumare una sigaretta con aria truce o a bersi una birra sul pontile. Qualunque cosa faccia, insomma, l’imperativo è distinguersi. Fa parte del branco, appunto (altrimenti d’estate sceglierebbe un’altra meta turistica); ma da cane sciolto.

Ogni anno, come si può immaginare, l’ex biondo giunge in spiaggia con una nuova metamorfosi. I primi anni non me ne ero accorto: sembrava una trasformazione casuale, l’evoluzione fisica di un adolescente che pian piano diventa uomo. Poi invece ho realizzato che la cura del look era ricercata e probabilmente veniva programmata con mesi di anticipo sull’inizio della stagione estiva: con l’unico scopo, immagino, di arrivare in spiaggia e godersi con finta noncuranza gli sguardi sorpresi degli amici e i loro commenti pubblici o privati. Un anno capelli lunghi fino alle spalle, da efebo malinconico; un anno rasati a zero come un naziskin allo stadio; un altro anno ancora con la cresta da punk. Una volta le guance rasate, l’anno dopo la barbetta rada alla Rourke, quindi la barba più lunga, poi via la barba e dentro i baffoni anni settanta, quindi via i baffoni e dentro i baffetti sottili e curati come Fred Buscaglione, quindi di nuovo rasato ma questa volta con le basettone alla Isaac Asimov. Il tutto con varianti sul tema, associazioni libere tra capelli e peluria del volto che farebbero invidia a un trasformista di professione. Quest’anno mi ha stupito ancora: si è presentato in spiaggia più castano del solito (temo l’intervento di una tintura risolutiva, ahimé), con la chioma da francescano e una barba lunghissima da guru orientale che per crescere, immagino, avrà impiegato tutto l’inverno.

Tutto questo per dire cosa, insomma? Che quest’anno, per la prima volta, mi è venuto il dubbio di somigliargli più di quanto avrei mai creduto. Anche lui, come me, è probabilmente alla ricerca di qualcosa: un posto del mondo, forse; o forse solo di un elemento distintivo, un tratto caratteriale suo soltanto che gli dimostri in modo inoppugnabile la sua reale esistenza e fughi il terrore di essere solo un ologramma, il personaggio collaterale di un film di serie B, la vittima collaterale di un videogioco alla Max Payne in cui il protagonista ammazza tutti e solo lui, il protagonista intendo, trova alla fine della catena di omicidi redenzione dai suoi peccati.

Alla fine, ciò che costituisce differenza tra gli individui non è l’oggetto della ricerca ma le modalità della ricerca stessa: che io stia tagliando capelli, insegnando latino e greco a una classe di liceali, delimitando i confini del referto radiologico perfetto, costruendo il muro maestro di una casa, studiando il look adatto a stupire i miei vecchi amici del mare, non fa alcuna differenza. Stiamo tutti cercando la stessa cosa, ossia chi accidenti siamo. Il modo in cui ci mettiamo in cerca di noi stessi, ecco, quello forse costituisce il discrimine: ma se devo essere sincero oggi non ne sono nemmeno più tanto sicuro.

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