In questi giorni stanno frequentando il mio reparto alcuni liceali, di ambo i sessi, che da grandi hanno intenzione di fare i medici o comunque di svolgere un qualche tipo di professione sanitaria. Eccellente iniziativa, aggiungo: così almeno possono toccare con mano il possibile futuro che li attende dietro l’angolo, annusare l’aria ospedaliera, farsi un’idea meno sfocata della bontà della loro scelta.
Oggi ero di turno in risonanza magnetica: cercavo di far orientare una ragazza del quarto anno di liceo nel marasma di sequenze, sezioni assiali e coronali e sagittali, patologie di vario genere e grado (il giovedì è storicamente mattina di colli, alleluia), ma poi siamo finiti a parlare del suo ciclo di studi, di cosa si aspetta dal futuro, delle ansie sterminate che soffocano la gioventù di questo paese cresciuta a colpi di crisi e di minacce di futura depressione economica. Ed è stata un’esperienza in un certo senso illuminante aver scoperto che trent’anni dopo gli adolescenti pensano più o meno le stesse cose di quando nel banco del liceo ci sedevo io: grandi speranze, paura di non farcela, genitori molto esigenti (forse anche troppo), ansia e timore, al tempo stesso, di vedersi finalmente sbocciati.
Ma la ragazza, per comodità la chiamerò Carmen anche se non è il suo vero nome, a un certo punto ha cominciato a parlare della morte. Certo, discorsi forse non da adolescente (io, per esempio, a tutto pensavo alla sua età fuorché all’evenienza che un giorno potesse toccare a me), ma diciamo che la contemplazione di patologie potenzialmente mortali ti ci porta eccome, a toccare quel tasto lì. Magari noi medici ci siamo più abituati, abbiamo due dita di pelo sullo stomaco, ma insomma: Carmen a un certo punto comincia a parlare della vita e della morte. E, tra le altre cose, dice: Beh, io non ho paura di morire in senso generale. La mia paura è di morire avendo lasciato qualcosa di incompiuto.
Ecco, a questa frase il papà che ormai alberga dentro me si è sciolto tutto e avrebbe voluto solo abbracciarla forte forte, stringerla con tenerezza e dirle che quella sensazione, quella paura di incompiutezza non la abbandonerà mai, dovesse vivere cent’anni. Eppure al tempo stesso quella paura si può combattere: scegliendo per esempio di costruire e non di distruggere, nella propria breve vita, e poi sperare che il tempo ci dia abbastanza tempo, appunto, e ragione.
E sono tornato a casa con il sorriso sulle labbra: perché se è questa la generazione che dovrà succederci, statene certi, sarò ben felice di far loro posto su questo pianeta.