La dura legge della domanda e dell’offerta

di | 26 Luglio 2014

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Giusto per concludere il discorso cominciato qualche post fa, narrando della signora che si lamentava della scarsa gentilezza riscontrata in ambiente ospedaliero, mi tocca sottolineare un altro punto essenziale della questione.

Come avevo accennato in questo post, questo è un periodo molto curioso nel quale chiunque parli di sanità, spesso senza averne le credenziali, o con credenziali quantomeno sospette, si sciacqua pubblicamente la bocca con la parola magica del momento: appropriatezza. E lo fa senza conoscere né la situazione sul campo di battaglia, quella che noi medici ospedalieri viviamo ogni giorno sulla nostra pellaccia dura, né la storia recente della sanità pubblica italiana. E allora proviamo a fare un po’ di ordine.

Da quando la sanità è stata organizzata in aziende, la situazione è cambiata drasticamente in modi che i promotori del cambiamento forse non avevano previsto. L’articolo 3 del DL 229/99 recita in modo molto chiaro quanto segue: (le aziende) informano la propria attività a criteri di efficacia, efficienza ed economicità e sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio attraverso l’equilibrio di costi e ricavi“. Rileggete queste parole con attenzione: capito quello che significano? Sono tenute al rispetto del vincolo di bilancio: sarebbe a dire che la festa è finita e che il SSN non può continuare a essere un pozzo senza fondo di spesa, magari pure con risultati discutibili dal punto di vista assistenziale. Certo, rimane il fine ultimo dell’azienda sanitaria, che è quello di erogare il miglior servizio possibile ai cittadini: ma, attenzione, al più basso costo possibile.

Ragazzi, diciamolo senza paura: da quando l’USL (unità sanitaria) è diventata ASL (azienda sanitaria) si è accettata implicitamente la conseguenza inevitabile: che la sanità entrasse a pieno titolo nel mercato e che le sue attività fossero regolate dalle stesse leggi che regolano quel mondo, prima tra tutte quelle della domanda e dell’offerta. Il problema è però implicito al sistema sanitario stesso, che nasce non come impresa che porta guadagno all’imprenditore ma come ente erogatore di servizi essenziali a un cittadino che paga quasi la metà del suo reddito in tasse (sebbene con dei distinguo tra aree geografiche e categorie di ceto, ma questo è un altro discorso).

Il cittadino che afferisce al SSN non è un cliente comune: ha già pagato il biglietto d’ingresso in ospedale con le sue tasse. Ecco perché il ticket viene visto come un’angheria senza fine, ed ecco anche il motivo per cui l’aumento del ticket che è stato introdotto in certe regioni, allo scopo di aumentare le risorse da destinare ai servizi, ha prodotto il risultato opposto: come raccontava Francesco Lucà (SNR) nella relazione al 13^ congresso Fassid-SNR (Il Radiologo 3/2013), la gente è fuggita dal pubblico al privato, i privati hanno fatto i soldi (spesso con risultati qualitativamente discutibili) e il pubblico ci ha rimesso ancora di più (fonte: Agenas). Cito testualmente: ” … il super ticket, introdotto nel 2011, non solo ha fallito l’obiettivo di integrazione economica della spesa in sanità ma ha prodotto la fuga dal pubblico riducendo, di fatto, l’apporto economico per cui era stato concepito“. Meditate, politici, meditate.

E poi, perdonate l’ovvietà, qui non stiamo parlando di cambiare il PC o il parquet di casa: qui si parla di salute, ed è noto che la percezione comune di cosa vuol dire essere in salute è un po’ cambiata negli ultimi anni. Una volta si andava dal medico quando si stava male, adesso ci si va quando si sta bene: la fissazione non basata sulle evidenze che qualcuno nutre per lo screening di massa nasce proprio da questa esigenza mal temperata dell’opinione pubblica. Insomma, il trend del numero di esami annui, in tutti i paesi industrializzati, è in aumento del 5-11% all’anno (Merla et al, Management in Radiologia, 2010).

Ma la colpa non è solo dei pazienti, pardon, dei clienti. La colpa è anche, e qui ci vuole la giusta autocritica, dei medici: i quali hanno abdicato al loro mestiere, che è quello di visitare i pazienti, e hanno sostituito anamnesi ed esame obiettivo con Radiologia e Laboratorio. Con conseguenze devastanti: Corrado Bibbolino, nei suoi interventi pubblici, parla del 40% di inappropriatezza prescrittiva. Una cifra pazzesca.

In tutto questo, notizia di cui nessuno parla, il 60% della popolazione è esentata a vario titolo dal pagamento del ticket ma usufruisce dell’80% delle prestazioni radiologiche; l’altro 40% paga il ticket, ma usufruisce del solo 20 % (fonte: Ministero della Salute, Ufficio Statistiche, 2002). Capite bene che qui crolla il palco della cosiddetta equità del SSN, che sulla carta vorrebbe uguale trattamento per uguali bisogni e uguale opportunità di accesso alle prestazioni per uguali bisogni. In tempi di crisi, poi, non sto a dirvi.

E allora? Tre strade percorribili. Forse.

La prima, a breve termine, la più semplice: aumentare la produzione senza aumentare il personale né le apparecchiature radiologiche, cioè quello che si sta facendo in giro per l’Italia con i risultati che abbiamo sotto gli occhi, ossia con liste di attesa uguali a prima (o peggiori di prima) salvo che per una piccola fetta della popolazione affetta da patologie non gravi né urgenti. Senza contare lo stress a cui è sottoposto il personale, con il rischio di errori connessi al superlavoro che poi l’azienda paga in risarcimenti faraonici. E senza contare che un giorno, quando tutti gli spazi operativi saranno impegnati, e l’ospedale lavorerà 24 ore al giorno, non sarà più possibile perseguire questa strategia perdente.

La seconda, a medio termine: aumentare la produzione aumentando nel contempo il personale e gli spazi operativi a disposizione. Questa è già meno miope, come strategia, ma comporta due problematiche enormi: soldi da investire, che non ci sono, e menti coraggiose che progettino un futuro sostenibile. Una strada che porta alla riprogettazione degli ospedali, alla loro riconversione, in certi casi alla loro chiusura. Che comporta maggiore flessibilità per gli operatori medici e paramedici, valutazioni continue sulla efficacia del loro operato, una inopinata flessibilità legata alle competenze del singolo e alle esigenze del territorio. Roba da fantascienza, per noi italici, che poggiato il culo su una sedia diventiamo immediatamente convinti che quella sedia sia nostra per sempre.

La terza, a lungo termine, quella più seria e che si potrebbe embricare senza difficoltà con la seconda: potenziare il filtro, lavorare su quella che in molti chiamano (senza capirne le sfumature, che sono molte e complesse) appropriatezza prescrittiva, ossia il prescrivere solo gli esami necessari e magari anche quelli corretti per la patologia in questione. Rimettendo al centro del processo la figura ideale per quel genere di lavoro, ossia il radiologo, che per legge è deputato ad avere l’ultima parola sull’appropriatezza di una prescrizione medica. Riqualificando categorie mediche, come quella dei medici di medicina generale, che sono diventati (loro malgrado, spero) meri esecutori materiali di prescrizioni errate altrui. Sostenendo la categoria medica anche dal punto di vista legale: magari trasformando la colpa sanitaria in reato amministrativo, come accade in tutto il resto del mondo salvo che in Italia, Polonia e Messico. Varando campagne serie di informazione che coinvolgano in prima persona il cittadino: partendo addirittura dalle scuole, come suggeriva il mio amico Antonio qualche post fa.

In definitiva, mi rendo conto che questi sono post estremamente specialistici, a sfondo politico (nel senso migliore del termine, non di appartenenza politica) e tutto sommato abbastanza pallosi. Però certe cose vanno dette, c’è poco da fare: e non importa che a dirle sia un ministro, un sindacalista, un medico o un blogger di periferia. È questione di buon senso e di competenze specifiche, non di appartenenze.

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