La teoria della relatività lavorativa

di | 28 Agosto 2015

C’è un momento chiave nella vita di ciascun professionista: quello in cui ci si sente irrimediabilmente e irrefutabilmente bravi. Ma non sufficientemente bravi, no: incredibilmente bravi, i migliori. E il sentirsi così, incredibilmente bravi, magari perché avete imbroccato o creduto di imbroccare un paio di diagnosi in fila, non può non essere relativizzato al posto in cui si lavora. In poche parole, ci si sente bravi rispetto a qualcuno (i propri colleghi) o a qualcosa (la media della competenza di cui noi stessi, del tutto arbitrariamente, facciamo credito ai colleghi).

Uno dei miei maestri di Radiologia soleva chiosare i suoi referti con un leggendario aforisma: Ricordatevi sempre che il quoziente di intelligenza medio dei vostri colleghi sarà bassissimo, e che per essere considerati bravi basterà molto poco. Conoscendo bene l’ambiente, inferisco che la lezione venga insegnata anche in altre Scuole di Specialità, oltre a quella che ho frequentato io; sebbene nasconda insidie di vario tipo, logiche ed etiche. Ma seguendo questa strada andrei fuori tema, e non voglio.

Quello che voglio, invece, è darvi un consiglio sincero. Quel giorno, sventurato, in cui il vostro entusiasmo sarà salito alle stelle e voi vi sentirete imbattibili, fuori scala rispetto ai vostri colleghi, è proprio il giorno in cui vi conviene fermarvi a riflettere. Perché potrebbe essere finalmente arrivato il momento di relativizzare la vostra presunta superiorità professionale a un ambiente meno angusto rispetto a quello con cui vi siete misurati. La sicumera beffarda con cui date giudizi su una risonanza magnetica del collo non riuscireste a riprodurla, uguale, se vi trovaste davanti a un monitor dell’Istituto di Radiologia Universitaria di Brescia. Foste nel reparto di Radiologia dell’Università Cattolica di Roma, forse, qualche goccia di sudore stillerebbe dalle vostre fronti mentre refertate una TC del polmone. Foste nel mio, di reparto, di fronte a una massa del pancreas vi verrebbe un desiderio irrefrenabile di aprire un libro e studiarvi la questione, prima di mettere nero su bianco. E allora, prima di sentirvi i migliori, forse potreste prendere in considerazione l’ipotesi di misurarvi con realtà più complesse della vostra. E magari chiedere il permesso, con il cappello in mano, di frequentare i luoghi dove lavorano i migliori professionisti e le cose vengono fatte seriamente.

Insomma, tutto questo è per suggerirvi che la vostra competenza, come tutto il resto, è relativa. Non solo a voi e al vostro quoziente intellettivo, quale che sia, ma anche all’ambiente professionale in cui siete cresciuti e quello, spesso differente e lontano anni luce, in cui avete esercitato finora il vostro mestiere. Ma questo sforzo comporta impegno, volontà di mettersi in discussione e onestà intellettuale: merce rara, specialmente di questi tempi e in questa parte del mondo. E’ molto più facile convincerci che l’avanzamento di carriera ci tocchi per anzianità di servizio, per una presunta e spesso indimostrabile leadership sul gruppo in cui lavoriamo, per meriti politici o per diritto di nascita.

Eppure, lo sapete bene anche se fingete di non accorgervene, in quel momento starete commettendo un grave peccato: di presunzione e omissione al tempo stesso. Prima che ciò accada, e qui torniamo al tema del post, fermatevi a riflettere. Uscite dai vostri confini. Andate a vedere cosa si fa nel mondo. Tornerete a casa più ricchi e meno presuntuosi, e forse capirete che non è necessario arrivare in cima alla piramide a tutti i costi, passando sui cadaveri dei nemici. E che la gioia più grande, nel nostro lavoro come in tutti gli altri, sta tutta in un concetto molto semplice: lavorare bene.

(Nella stesura di questo post un ringraziamento obbligato va al mio collega Michele, con cui ho discusso dell’argomento durante un pasto frugale in mensa. La ricchezza, inestimabile, di avere colleghi intellettualmente molto attivi.)

Lascia un commento