Lettera aperta a un Primario Ospedaliero

di | 30 Luglio 2011

Caro Primario Ospedaliero,
forse tu non lo sai ma un tuo diretto collaboratore, a sua volta, mi ha scritto una lettera. Molto amara. Aveva un problema, il tuo diretto collaboratore: non personale, perchè in quel caso non sarebbe mai entrato nello studio di un perfetto estraneo come te per parlarne, ma lavorativo. Più nello specifico, un problema organizzativo: ossia, uno di quelli che sei pagato per risolvere quotidianamente; oppure, se sei veramente bravo, per prevenire.
Ma la tua risposta è stata sopra le righe. Forse ti sei sentito minacciato nella tua autorità da quel giovane collaboratore che intanto ha venticinque anni meno di te, quindi è giovane per definizione anche se è capace di guardare molto più lontano; o forse non è nemmeno questione di sentirsi minacciati, forse è solo la vergogna che si prova quando ti accorgi che sei inadeguato ai tempi e ai luoghi, che a quel problema e alla sua soluzione nemmeno ci avevi pensato, o peggio ancora che quel problema preferisci schiacciarlo come uno scarafaggio perchè affrontarlo ti costerebbe tempo, che nei hai da vendere, entusiasmo, che te ne è rimasto poco, e passione, che quella l’hai persa già da molti anni.
Lo so, forse di anni te ne restano pochi prima della fatidica pensione: e d’altronde chissà che salti mortali hai fatto per arrivare là in cima, in quella regione finto-virtuosa e nota per intrecci malsani fra sanità, politica e potentati collaterali di altra natura dove vivi e lavori. Perchè dovresti rovinarti gli ultimi anni sereni prima della pensione da generale, vero?
Ma una cosa te la voglio dire, però. Lo so: tu hai ragione quando pensi, nella solitudine ovattata del tuo studio, che non ne vale la pena, che è tutto tempo sprecato, che non sarai tu a cambiare le cose e che in fondo questo equilibrio da ignavi va bene per prime alle varie direzioni ospedaliere cui devi rendere conto. Lo so che hai compreso la sostanziale inutilità del tuo lavoro, l’evidenza feroce che nessun medico guarisce mai nessun paziente, ed è per questo che non ti aggiorni più e che tiri avanti galleggiando a pelo d’acqua con quelle due o tre cose che hai imparato durante la specialità e con molta, molta abilità da mestierante, grazie a quel dire-non dire nei referti che tiene alla larga dai guai tutti quelli come te.
Ma c’è una cosa che non hai capito, quella che, qualora esista per davvero, ti farà guadagnare l’inferno per direttissima: tu puoi aver mollato, e millantare da tempo falsi crediti o esserti nascosto in un ospedaletto di provincia a dormire i tuoi anni migliori, ma sotto di te lavorano uomini giovani, menti fresche, caratteri appassionati. La tua colpa non è quindi l’ignoranza grassa, immisericordiosa e ormai inguaribile, l’inerzia da ronzino schiantato, la collusione silenziosa con un sistema marcio fin nelle fondamenta. La tua colpa è verso di loro, i tuoi ragazzi giovani, per i quali non sei da guida, non sei da appoggio, non sei da riparo, non sei nulla di nulla. Il tuo peccato mortale è spegnere entusiasmi giovanili, recidere crescite culturali promettenti, chiudere la porta in faccia alle idee innovative dell’ultimo collaboratore arrivato in reparto, che forse è quello che le idee ce le ha più chiare di tutti. Il tuo peccato mortale, in sostanza, sta nell’aver creato un reparto a tua immagine e somiglianza, pieno di oscuri travet che timbrano il cartellino e lavorano come in una squallida catena di montaggio.
Alla fine di tutta questa storia sai cosa accadrà? Che di te non sarà rimasto nulla, nemmeno il necrologio sulla rivista di categoria, perchè nessuno ricorderà la tua faccia o le tue parole. Un giorno dopo la pensione e, come per magia, potresti non aver mai lavorato in quell’ospedale e nessuno se ne sarebbe accorto. L’unica garanzia non dico di immortalità, ma almeno di memoria duratura, te la sarai bruciata insieme ai ragazzi che hai lasciato decrescere professionalmente nell’idea che nulla debba essere cambiato, che non ne vale la pena, e che in ogni caso è meglio così per il quieto vivere di tutti.
Mentre invece tanto si può fare, e ne vale sempre la pena, ed è diecimila volte meglio una gloriosa sconfitta in battaglia che una pace a tavolino che non cambia nulla per nessuno.

E questo, caro il mio Primario Ospedaliero, si chiama vivere.

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