Lo Zen e l’arte della spada di fuoco

di | 11 Febbraio 2010

L’altro ieri sera ho volentieri rivisto un film del 2003, L’ultimo Samurai.

Protagonisti un Tom Cruise, mediamente espressivo, nei panni di un capitano amareggiato dalle brutalità della guerra contro i nativi americani; un nobilissimo e illuminato Samurai a capo di una rivolta apparentemente ordita contro l’Imperatore, ma in realtà devoto al suo signore fino alla morte (paradossi e sfumature che noi occidentali, per limiti culturali, non siamo in grado di cogliere in pieno; o forse no, bisognerebbe parlarne con calma); e una meravigliosa giapponesina a cui il bel tenebroso Tom ammazza il marito in battaglia per poi prenderne il posto.

C’è una scena, nel film, in cui nel villaggio di samurai dove è tenuto prigioniero viene insegnato al capitano Tom come usare la spada. Gli viene rimproverato di mettere troppa mente nella sua azione: come insegna la filosofia
Zen, più desideri raggiungere la tua meta e più la meta si allontana. E Tom le busca con pervicace regolarità (diciamo pure che lo gonfiano ripetutamente come una zampogna). Fino a che, un giorno, finalmente capisce quale lezione i samurai cercano di impartirgli a furia di ceffoni e con l’esempio di una vita votata alla perfezione formale anche nei particolari apparentemente più banali dell’esistenza: quindi calma la mente, allontana l’ansia da prestazione che alimenta da sempre lo spleen di noi poveri europei, anche quelli esportati oltre atlantico, e diventa un’arma letale che al confronto il Gladiatore di Ridley Scott e il Lancillotto de Il Primo Cavaliere sembrano due boy scout sfigati.

Tornando a bomba, ho più volte raccontato cos’è una biopsia TC-guidata: in buona sostanza, un lungo ago conficcato nel torace o nell’addome del paziente per estrarne un cilindretto di materiale patologico che verrà poi inviato al patologo per l’esame istologico. Nel mio reparto usiamo chiamare Spada di Fuoco una biopsia in cui l’ago penetra per oltre 15 centimetri nel corpo umano: che sono tanti, credetemi sulla parola, davvero tanti.

Specialmente quando il nodulo da pungere è piccolo, o in una posizione disagevole. E quando metti in atto la Spada di Fuoco non è solo questione di capacità tecniche: ci vuole fortuna, anche, ma una delle cose che ho imparato negli anni, e che ci riporta al tema del post, è che un nodulo difficile non lo becchi soltanto grazie all’occhio o al calcolo millimetrico delle distanze. Anche in questo caso bisogna che la mente sia sgombra: una lavagna nera, uno specchio d’acqua perfettamente immobile. Questo genere di astrazione non è un mero esercizio dialettico: la realtà è che più ti sforzi di beccare quel maledetto nodulo più aumentano le probabilità di fallimento. Non lo so, forse è questione di muscoli che si contraggono in modo inadeguato, di scariche nervose non perfettamente bilanciate; quello di cui invece sono sicuro è che tenere la mente sgombra, essere lì, davanti al paziente ignudo ma in realtà non esserci o non esserci nel modo canonizzato dal pensiero occidentale, per il quale ogni effetto è necessariamente preceduto da una causa, spesso fa’ la differenza.

E permette poi di sorriderci, sulla Spada di Fuoco, e non di disperarsene per come è andata.

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