Semi

di | 2 Luglio 2008

E’ stata una giornata lavorativa strana; vissuta con un malumore di fondo inusuale, da picco depressivo.

Stamattina, di turno in ecografia, tutta una varia e spettacolare umanità da cui non ho saputo trarre la solita soddisfazione, e con cui non sono riuscito a comunicare come avrei desiderato.

La vecchina ritorta in due dall’osteoporosi, a cui è morto il marito da tre mesi e che me ne parla con le lacrime agli occhi (“…dottore, non so come dirlo… sessant’anni insieme ed eravamo ancora così uniti…”).

Poi una giovane donna, bella come il sole, a cui da qualche mese hanno cavato via l’utero per un tumore (diosanto, la certezza matematica di non poter avere figli…), e nonostante tutto capace di un sorriso dolcissimo prima di andare via dalla sala ecografica.

Il bimbetto di nove anni con due occhioni così, figlio di un extracomunitario che sembra suo fratello piuttosto che suo padre, per quanto è giovane, e che se la fa ancora addosso di notte (il figlio, non il padre).

Un signore, al suo secondo cancro, che sorridendo mi dice: “Ma dottore, io sto bene, è come se non avessi mai avuto nulla”.

La segretaria che lavorava nel mio reparto fino a pochi anni fa e che ho ritrovato ringiovanita e più simpatica e bella di come la ricordassi, quasi che la lontananza dall’ospedale l’avesse riportata a nuova vita.

E tutto questo accadeva in un’atmosfera irreale: in una stanza con le tapparelle tirate giù perché il sole mi impediva di vedere bene lo schermo, circondato da colleghi incazzati o esasperati, a seconda dei punti di vista, o bene che vada confusi e smarriti. Persone a cui non riesco a far capire che fra l’uomo e il ruolo formale che riveste in quel momento specifico io scelgo senza esitazioni il primo, perché i momenti di merda prima o poi li passiamo tutti e perché se c’è una cosa che mi appassiona, nella vita, è proprio la pasta di cui le persone sono fatte, la nostra unica ed esaltante e misera e tutto sommato anche inutile storia personale, perché fra cinquant’anni per quanto grandi siano state le
nostre imprese nessuno si ricorderà più di noi; e più che i trionfi allora mi commuovono le sconfitte, i passi falsi, i rimpianti e i rimorsi inestinguibili.

Forse perché i trionfi passano presto e lasciano tracce labili nella memoria; ma i rimorsi non passano mai, e alla fine ci si trova accomunati più nei secondi che nei primi.

Quando vivo momenti come questo, perdonatemi la banalità da tronista, mi sforzo di pensare a mio nonno: alla sua straordinaria gioia di esistere, alla vitalità che non lo ha abbandonato nemmeno sul letto di morte, alla generosa disponibilità che manifestava a tutti, amici e sconosciuti. Ci penso e mi viene
in mente che allora forse non è vero che le nostre storie sono inutili: ognuno lancia in aria dei semi, quando è costretto a vivere, e qualcuno di quei semi mette radici a terra e accompagna intere generazioni di uomini e donne.

Un giorno, forse, guarderò mio figlio vivere e troverò che somiglia a mio nonno.

Ecco perché non smetto di lanciarli in aria, quei cazzo di semi.

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