Solitudini ospedaliere

di | 26 Aprile 2015

FullSizeRenderUltimamente ho parlato di solitudini: ma, perdonatemi, ero stanco e incazzato e ho sicuramente enfatizzato troppo concetti che, tutto sommato, di fronte alla complessità di una vita intera sono poco più di briciole. Misere briciole. E allora cerchiamo di fare chiarezza.

Dodici ore di guardia, nel Pronto Soccorso radiologico di una DEA di secondo livello come quello in cui lavoro, sono lunghe a passare: solo chi ha avuto il privilegio di vivere l’esperienza sa di cosa parlo (gli altri, gli altri, si riempiono la bocca di parole che non comprendono). Così, a volte, si arriva a sera ed è possibile contare oltre centocinquanta firme su referti che raccontano di tutto, dalla frattura del braccio di un neonato all’ischemia intestinale della nonnina di novant’anni. E qualche volta, nell’arco delle dodici ore, finisci per sentirti solo: perché magari è domenica, i corridoi son deserti e nessun collega passa a fare un saluto.

Giusto, i corridoi.

Per esempio, i corridoio che costeggia il mio reparto è lungo, lunghissimo. Su una delle pareti, prima della curva a gomito, si aprono le porte scorrevoli delle due TC che abbiamo in dotazione: quando le macchine sono in funzione sugli stipiti di entrambe lampeggia una luce intermittente con il simbolo dei raggi X. Noi radiologi in genere siamo dentro, quando le luci lampeggiano: abbiamo appena impostato i parametri dell’apparecchiatura, scelto il contrasto da usare, la velocità di flusso, i ritardi delle varie fasi di acquisizione. Ma a volte, quando passiamo lungo il corridoio, le luci lampeggiano e sappiamo che è un collega, in quel momento, insieme al tecnico, che si sta occupando dell’ennesima urgenza.

E a volte, come oggi, come documenta la foto che introduce il post, davanti a una delle porte staziona una persona. In genere se ne sta in silenzio, appoggiata al muro, gli occhi bassi e la fronte corrugata: quasi sempre è di un parente stretto che ha accompagnato il malato in TC, insieme ai portantini, e poi ha scelto di attendere fuori dalla porta che l’esame termini. Quando le porte della TC si riaprono, e il letto con il paziente disteso viene riportato verso il Pronto Soccorso o il reparto di provenienza, quella persona non dice quasi mai nulla. Non fa domande, non chiede di conferire con il radiologo. Si limita a guardarti, con aria assorta, come se dalla tua espressione del viso potesse guadagnare una comprensione fugace ma più profonda del dramma che sta vivendo; e poi segue il lettino spinto dagli operatori, fino a che scompare dietro l’angolo cieco.

Una persona a me molto cara, una specie di zio acquisito, aveva una grande passione per il volo. Diceva spesso che volare gli regalava una visione del mondo più oggettiva: le città tentacolari sembravano paeselli di montagna, gli uomini da quell’altezza scomparivano, la terra sembrava più ordinata di quanto apparisse, appunto, da terra.

Insomma, quello che sto cercando di dire è che esistono molte solitudini, è vero. Ma anche un numero molto più grande di modi per lenirle, quelle solitudini. Certo, è molto più facile lasciar perdere, guardare oltre, far finta di nulla. Ma viste dall’alto le nostre solitudini spariscono, diventano paesaggio, smettono di rivestire significati per diventare semplice polvere che il vento spazza via. E allora non ci resta altro, per ritornare a essere uomini, che allungare una mano: a un paziente, per esempio, se sei medico. O a un altro uomo che smonta da un barcone: così simile a quello da cui, molti anni prima,  i nostri nonni erano sbarcati in altre terre inospitali, in cerca di fortuna, con una paura fottuta della solitudine e senza nessuna mano che li sorreggesse.

Qualcosa, insomma, dovremmo aver imparato dalla vita e dalle nostre solitudini. Anche se spesso non sembra.

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