Buongiorno, e casomai non vi rivedessi buon pomeriggio, buonasera e buonanotte

Questo blog nacque nel 2005: altri tempi, veramente, e non per modo di dire. Tempi in cui tutto sembrava in espansione illimitata; e dove per ognuno di noi giovani medici, a seconda delle inclinazioni individuali, si aprivano miriadi di porte.

Il nostro obiettivo era uno solo, da sempre: lavorare in ospedale. Nel privato ci finivano solo gli incapaci, quelli che non tolleravano la vita ospedaliera, per motivi tutti loro, e quelli che nel tempo non avevano visto riconosciute le loro aspirazioni più profonde (tipo: volevo diventare primario del mio reparto e invece hanno scelto un altro). E ci finivano i giovani pensionati, in tempi nei quali a 60 anni eri già fuori con una pensione da urlo, così da continuare a perpetrare anche nel privato i misfatti che avevano perpetrato nel pubblico e guadagnando spesso cifre indecorosamente elevate. Spesso e volentieri, si trattava di gente invitata a togliersi dalle scatole in modi molto fantasiosi, che hanno solo esacerbato disturbi caratteriali e lavorativi già emersi in tutto il loro splendore negli anni precedenti. Ma che volete: così andava il mondo, in quei tempi felici. C’era davvero spazio per tutti.

Adesso, quasi vent’anni dopo, il mondo è cambiato e il post di oggi è quello che chiude definitivamente il mio lungo viaggio di blogger. Per due motivi: i blog, intesi come forma di attività del pensiero umano, sono già morti da almeno dieci anni, come sosteneva un mio caro amico, sostituiti da forme meno impegnative e più fruttuose di interazione social; e anche perché, tecnicamente, potrei forse ancora definirmi medico ospedaliero ma di certo non medico ospedaliero completamente pubblico. Il che basta a smentire la missione iniziale del blog stesso: unradiologo.net, diario online di un radiologo ospedaliero. Insomma, non mi trovo più nel luogo privilegiato di osservazione dal quale guardare il mondo ospedaliero pubblico ed esprimere giudizi.

Lascio il blog aperto a testimonianza di vent’anni di riflessioni e previsioni, ahimè, più spesso azzeccate che non. Ma non ci saranno altre riflessioni, su queste pagine, né serie né facete. Quella che troverete nel link a fondo pagina è l’ultima, riassuntiva di tutto ciò che è accaduto in questo ultimo e difficile periodo, e che prelude a cambiamenti epocali di cui al momento è difficile intravedere l’esatta portata. È lunga e impegnativa, più delle altre. Non mi offenderò se non avrete voglia di leggerla.

Se invece vi avanza tempo, in questi lunghi pomeriggi estivi e caldi, e volete proprio leggerla, la trovate qui.

Per il resto, in bocca al lupo a tutti. Ci si ritroverà, prima o poi: il mondo, per fortuna e purtroppo, è un luogo incredibilmente piccolo.

Radiostupids (abstract)

Addonisio G et himself. Using process improvement methodology to limit radiologists pain in the ass when patient’s cell phone rings during ultrasound scan. RadioStupids 2022; 23: 1999-2022.

Introduction. One of the major challenges in the current health care environment is to limit the phone calls received by the patient, on his mobile number, while he is performing an ultrasound examination. In particular, the arrival of a phone call has a substantial effect on the radiologists pain in the ass, determines the lengthening of the examination time and increase the risk of error. This is equally true for the radiologist in the emergency room, where the time available for the exam is reduced.

Materials, methods and results. At our institution, an analysis of the data relating to the phone calls received by patients during the ultrasound examination, in the years 2015-2021, has shown that every 10 patients, 9,99 leave the mobile phone on, in the dressing room, before accessing the ultrasound room. Furthermore, it was demonstrated that 7.87 out of 10 patients  had their cell phone ringing during the ultrasound scan (average delay time from the start of the exam: 2,56 minutes).

Discussion. From the analysis of these data, a project was developed to limit the radiologists pain in the ass when the patient’s cell phone ring. The following options were considered: a) handing over the mobile phone at the entrance to the ultrasound room and locking it in a shielded and sound-absorbing locker; b) switching off the cell phone by the patient before taking a seat on the ultrasound table; c) suspension of the examination at the first ring of the mobile phone and forced removal of the patient from the ultrasound room, with loss of reservation; d) fine the patient for each call, to be defined on the basis of a specially prepared table.

Conclusions. Process improvement projects require regular periodic reevaluations to assess the need for additional interventions, and our project is no exception. We have not established a formal plan for support during this project. This probably contributed to the lack of comprehensive support from strategic management and is considered a lesson for future projects. Additional limitations of this design include the potential variance in how healthcare providers manage patient access to the ultrasound room. We continue to evaluate opportunities for further improvement for the benefit of our radiologists.

L’economia della ciambella

In Bauman, sempre lui, ricorre sovente il riferimento alla attuale sindrome consumistica come contrapposizione alla sindrome produttivistica, retaggio di anni passati in cui la durata di un oggetto era proporzionale al suo intrinseco valore. Oggi, a quanto pare, il valore di un oggetto è dato dalla sua transitorietà, cioè dalla rapidità con cui passa di moda, va incontro a usura (un’usura anche solo di tipo percettivo, veicolata dai messaggi che impartiscono, quotidianamente, i mass-media).

Una società consumistica, per definizione, si basa sul consumo: non è una banale allitterazione, questa, ma un dato di fatto essenziale per comprendere che essa si tiene in piedi solo se il consumo è dilatato all’infinito. Un’economia consumistica, dice ancora Bauman, è basata “sull’inganno, sull’esagerazione e sullo spreco; inganno , esagerazione e spreco non sono segnali del malfunzionamento di tale economia, ma garanzie della sua salute”. Obiettare che la strategia è perdente, perché nessun fenomeno antropologico può espandersi all’infinito senza causare danni collaterali all’intero sistema non sembra interferire sul processo stesso: consiglio al proposito di leggere “L’economia della ciambella”, di Kate Raworth. In linea di principio, l’economia consumistica non può crescere indefinitamente perché a) le risorse sono limitate e gli scarti di tale economia inquinano il mondo in cui viviamo e b) perché le risorse disponibili non sono distribuite equamente, e questo crea diversi problemi di accaparramento delle risorse disponibili che per adesso si limitano alla guardia dei confini e delle acque nazionali, ma che sono destinati col tempo a schiantare l’intero consorzio umano (o quantomeno a modificarne drasticamente gli equilibri, ma in senso negativo).

Parlo di questa dicotomia tra sindrome produttivistica e sindrome consumistica perché mi sembra di individuare alcuni meccanismi che si tagliano perfettamente all’ambito sanitario pubblico. Per anni, nel nostro paese, abbiamo cercato di erogare il bene primario “salute” cercando di renderla duratura e limitando gli interventi alle situazioni di effettivo bisogno: era importante il reale valore dell’atto medico, non il numero di atti medici erogati nell’unità di tempo. Da quando la sindrome consumistica, pilotata dalla cattiva politica, si è impossessata della gestione sanitaria, abbiamo assistito al moltiplicarsi irrefrenabile delle prestazioni mediche: è da decenni che si parla, nel mio ambito, di inappropriatezza prescrittiva come elemento di degenerazione del sistema sanitario. E, siccome stiamo parlando di sindrome consumistica, ci rendiamo inevitabilmente conto che questo eccesso di prestazioni provoca la produzione di una enorme quantità di scarti: i danni iatrogeni, cioè provocati da esami inutili e terapie non prive di effetti collaterali. Nel bellissimo libro di Ottavio Davini “Il prezzo della salute” (Nutrimenti editore, 2013), è chiaramente descritta la situazione attuale: nei paesi più avanzati il contatto individuo-sistema sanitario è talmente esasperato che le conseguenze a breve, medio e lungo termine, e non essendo la medicina ancora una scienza esatta, incrementano paradossalmente il rischio di danni, appunto, iatrogeni (riducendo pertanto l’aspettativa di vita). Più il paziente sano, o presunto tale, ha contatti con il sistema che deve curarlo, più aumenta il rischio di prestazioni inutili/dannose. È semplice statistica, non arrovellatevi troppo su questo punto.

La sindrome consumistica esalta il consumo di risorse (più esami e più interventi chirurgici, nell’immaginario del politico di turno, in un’ottica distorta da catena di montaggio, da fabbrica sovietica del ‘900, diventano un biglietto da visita per le successive elezioni) e, al tempo stesso, ingolfa il sistema (che è complesso, dunque a forte rischio di ingolfamento perché le risorse non sono adeguate alla crescita), provoca la creazione di un gran numero di scarti e determina lo squilibrio nella distribuzione dei servizi. Insomma, esattamente quello a cui stiamo assistendo negli ultimi anni.

Mi sembra un punto su cui la politica buona, o ciò che ne è rimasto, dovrebbe interrogarsi seriamente.

E lo Stato che fa? Si costerna, s’indigna, s’impegna, poi getta la spugna con gran dignità

Nel lontano ottobre 2015 condividevo sul mio blog un articolo del sito saluteinternazionale.info, dal titolo “Assalto finale al Servizio Sanitario Nazionale” e a firma di Gavino Maciocco (docente di Igiene e sanità pubblica presso l’Università di Firenze). Potete leggere l’intero articolo qui.

In buona sostanza, e in tempi che con una buona dose di ottimismo e incoscienza potremmo definire “non sospetti”, si paventava che l’ipotesi dello smantellamento progressivo del SSN non fosse frutto di errori di programmazione ma di una ben precisa (e celata) strategia politica: tesi che, attirandomi la simpatia di molti, vado sostenendo in questa sede da ben più tempo. Come mostra l’articolo, non siamo l’unico paese europeo ad aver imboccato quella strada. E vi dirò di più: non sono nemmeno totalmente contrario all’idea che i bocconiani filo-montiani citati nell’articolo espongono sulla revisione dell’intero sistema (“Che senso ha tassare metà del reddito delle fasce più alte per poi restituire loro servizi gratuiti? Meglio che li paghino e contemporaneamente che le loro aliquote vengano ridotte”). L’importante, in questi casi, è ricordare che nel progetto sono insite due implicazioni ineludibili: a) esporre chiaramente il progetto politico e su quel progetto farsi giudicare alle elezioni successive e b) non dimenticarsi che esiste una fetta di popolazione che non ha, e non avrà, risorse sufficienti per pagarsi un’assicurazione privata. E che quindi deve essere tutelata.

Certo, forse anche le cariatidi si stanno svegliando, sebbene con un certo ritardo: in quotidianosanità.it di oggi si legge, nell’articolo di testa, che i principali sindacati dell’area medica sono pronti a scendere in piazza. Recita l’articolo: “Alla sanità del 2023 vengono destinate certo più risorse, ma per bollette e vaccini e farmaci anti Covid, non per servizi e personale. Anche la promessa indennità di Pronto Soccorso viene rinviata al 2024. Niente per il Contratto di lavoro 2019-2021, che prevede incrementi pari a un terzo del tasso inflattivo attuale, e nessun finanziamento per quello 2022-2024”. Il che è sacrosantamente vero, ma non rappresenta nessun elemento di novità nei confronti del quindicennio appena trascorso. Per qualche motivo che adesso è più facile per tutti immaginare, i medici sono stati presi a calci nei denti e si è investito (a parole) su altre figure sanitarie che probabilmente al momento rappresentano un bacino elettorale più forte. E per qualche altro motivo, che invece è più difficile (ma non impossibile) comprendere, le associazioni di categoria si sono limitate, per parafrasare De André, a costernarsi, indignarsi, impegnarsi, e poi a gettare la spugna con gran dignità.

Vanno fatte le barricate, figli miei: e non per salvare il nostro portafoglio, come sicuramente avrebbe voglia di commentare qualcuno che si irrita ogni volta che i medici si lamentano di qualcosa. Ma per salvare almeno una parvenza di universalismo delle cure, semplicemente, per non trovarci costretti a vedere la gente che schiatta per strada.


Stavolta nemmeno ve lo dico, qual è la canzone di accompagnamento al post.

Sul concetto di “merito”

Si parla tanto, in questo periodo storico, di “merito”: al punto che persino il Ministero dell’Istruzione è stato ridenominato – non senza qualche mal di pancia, anche da parte mia- Ministero dell’Istruzione e del Merito. Sottintendendo, in qualche modo, che il concetto di merito sia indissolubilmente legato all’istruzione che uno riceve: il che sarebbe di per sé un bello schiaffo per i laureati all’università della vita che si danno appuntamento sui social (ma su questo torneremo dopo).

Intanto, come è buono e giusto, partiamo dalla semantica. Il vocabolario Treccani della lingua italiana fa derivare la parola merito dal latino merĭtum, derivato di merere (meritare), e dà come primo significato “il fatto di meritare, di essere cioè degno di lode, di premio, o anche di un castigo”. Prima riflessione d’obbligo: merito è una parola bifronte e da sola non vuol dire niente, perché si può essere meritevoli non solo di lodi o premi ma anche di un castigo. In questo senso la ridenominazione del Ministero è potenzialmente foriera di un sano ritorno al passato, laddove la bocciatura di uno studente non era vista come un atto lesivo della sua integrità psicologica ma come il riconoscimento, appunto, di una mancanza di merito positivo. Ma non è tutto oro ciò che luccica.

Seconda riflessione: non soltanto la parola “merito” da sola non vuol dire niente, ma addirittura si comporta come un contenitore vuoto in cui è possibile riversare qualsiasi altro concetto. Faccio un esempio: negli ultimi anni, grazie anche alle problematiche psicoanalitiche emerse durante la pandemia, è stata molto intensa la presa di posizione di chi ha ritenuto che siccome le informazioni attualmente sono alla portata di tutti, grazie a Internet, la laurea non costituisce di per sé motivo di merito e non fornisce diritto automatico a chi è laureato di sostenere la bontà di una tesi. Il che, a una prima superficiale analisi, potrebbe anche essere vero. Ma c’è un problema: il merito, di per sé, non è concesso per il fatto stesso di essere laureati (ognuno di noi ha compagni di corso, regolarmente laureati, dei quali non ha mai pensato benissimo); e il merito dell’essersi laureati non consiste nella pergamena affissa sulla parete principale dello studio o della propria camera da letto. Il merito risiede nel fatto che durante un percorso di studi, più o meno accidentato, persone qualificate hanno valutato il tuo livello di competenza e ritenuto che fosse sufficiente. Il valore (il “merito”) della laurea sta nella certificazione del livello di competenza, non in altro. Il laureato di internet o all’università della vita, in linea del tutto teorica, potrebbe anche aver raggiunto un analogo livello di competenza: il problema però è che nessuno glielo ha certificato. A dire la propria sui social sono bravi tutti. Terminare un corso di laurea vuol dire aver accettato il giudizio di venti, trenta persone qualificate per esprimerlo. Non è una differenza da poco.

Terza riflessione: il merito ha un valore variabile e determinato dal contesto in cui viene applicato. Indro Montanelli, quando cominciò a scrivere la sua iconica Storia d’Italia (lettura affascinante a prescindere, perché Montanelli la penna sapeva usarla), fu travolto dalle critiche degli storici di professione. Lo stesso Alessandro Barbero, che pure come divulgatore gli sta alla pari, pur senza nominarlo direttamente lo dice spesso nelle sue lezioni pubbliche: il non-storico che si presta al racconto della Storia, anche se scrive bene, non può evitare di commettere errori di metodo. Montanelli, sprezzante, rispondeva ai cattedratici polemici, con grande sussiego, che se legioni di lettori compravano i suoi libri un motivo ci sarà pur dovuto essere, e che tanto gli bastava: il popolo è sovrano, come avrebbe detto una assai querula conduttrice televisiva, anni dopo, riferendosi alle votazioni per eliminare i partecipanti al Grande Fratello. Posizione ideologica quantomeno debole e anch’essa gravata da vizi di logica, mi viene da commentare oggi: come dire che se decine di migliaia di persone seguono profili di complottisti dell’ultima ora, allora quei complottisti hanno automaticamente ragione.

Quarta riflessione: il merito non è un valore assoluto e misurabile ma ha a che fare con la propria percezione del medesimo. Se uno si ritiene meritevole di un traguardo o di un premio, sulla base del proprio metro di giudizio, non c’è esame o concorso che tenga: chi lo ha scavalcato ha sicuramente altri motivi, illegali o quantomeno immorali, per aver vinto. Questo è il grande, irresolubile problema dei concorsi pubblici e ha a che fare con l’ipocrisia di cui è intriso qualsiasi consorzio umano: il merito non è mai assoluto, dicevamo, ma dovrebbe essere correlato al luogo in cui vanno espletate le funzioni del più meritorio. La colpa imperdonabile della politica è questa: non ragionare per progetti ma per opportunità del momento, senza pensare che le scelte sbagliate si pagano, e pure a caro prezzo.

Ma questo concetto è quantomai aleatorio e conduce direttamente alla foto di Pierfrancesco Favino, talentuoso attore nostrano, che allego al post e che gira su internet corredata da una frase che non sappiamo se apocrifa o meno: “Esistono i raccomandati ma durano poco. La raccomandazione non può arrivare dove non arriva il talento”. La frase trabocca di vizi di logica, ma non è questo il punto della questione. Il punto della questione è che a essere valutato non dovrebbe essere il merito ma il talento, e che il primo è una conseguenza del secondo e non il contrario. Altrimenti, alla fin fine, la frase di Favino è buona come lenitivo esistenziale per tutti coloro che nemmeno con la raccomandazione sono riusciti a certificare il loro presunto talento.

Conclusione: avrei preferito che la denominazione del Ministero restasse quella originaria, cioè legata alla sola istruzione. Preferisco che un Ministro si occupi dell’istruzione degli studenti in modo scientifico: al merito ci penserà davvero la vita, in un modo o nell’altro, e ognuno alla fine dovrà assumersi le proprie responsabilità per i risultati ottenuti.