Una laringe di sessant’anni fa

di | 16 Settembre 2011


Come alcuni di voi sanno, le mie due passioni lavorative sono il collo e il torace***.
Sul distretto cervicale, soprattutto, ho compiuto un percorso culturale di rigoroso e costante impegno: perché, a differenza della radiologia del torace, se in specialità non c’è nessuno che ti insegna i punti cardinali del collo (una specie di labirinto anatomico in forma cilindrica) quando ti ritrovi in trincea è come fare l’autopsia a un marziano. Senza contare che, purtroppo, i centri universitari italiani in grado di insegnare la radiologia del collo come si deve si contano sulle dita di una sola mano. Anzi, non c’è nemmeno bisogno di usarle tutte, le dita di una mano. La laringe? Il rinofaringe? Gli spazi del collo? Tutta roba che mediamente non abbiamo studiato nemmeno durante gli anni di laurea, figuriamoci dopo.
Mosso dalla mia personale passione e dalla curiosità divorante che quotidianamente rende difficoltosa la mia esistenza di dipendente ospedaliero pubblico sereno e imperturbabile, qualche tempo fa mi è venuto l’uzzolo di capire cosa potesse aggiungere alla clinica, per esempio, di un tumore della laringe, un radiologo di cinquant’anni fa. E mi sono ricordato che il mio primo e indimenticato primario, quando mi trasferii nell’ospedale in cui lavoro attualmente, volle regalarmi per buon augurio un vecchio libro di radiologia della laringe (i cui rudimenti iniziali proprio lui mi aveva insegnato, con molta pazienza).
Lo conservo ancora come una reliquia. E’ un libro del 1952: il suo titolo è Atlante radiologico della laringe normale e patologica, Sansoni Edizioni Scientifiche. Il testo mostra ciò di cui erano capaci i radiologi del 1950: poco, molto poco, al confronto delle moderne cosiddette metodiche panesploranti come TC e risonanza magnetica. Eppure, aver riguardato quelle vecchie immagini mi ha aperto gli occhi su alcuni significati basilari del nostro mestiere. Letteralmente riaperto gli occhi.
Una semplice radiografia della laringe, lo vedete anche voi, fornisce pochissime informazioni rispetto a una scansione TC o RM.
E di sicuro il chirurgo non poteva contare sui reperti del radiologo per un corretto bilancio pre-operatorio: forse solo nei casi in cui le cartilagini laringee erano palesemente disintegrate dalla malattia per lui faceva qualche differenza per le scelte terapeutiche. Però, ve ne prego, prestatemi ancora due minuti di attenzione.
Intanto, basta guardare quella stessa radiografia della laringe per capirlo: quel poco che si poteva intuire era sotteso da una tecnica di esame ineccepibile. Pur non avendo mai assistito all’esecuzione di un esame radiografico diretto della laringe, immagino senza fatica che piccole variazioni nel chilovoltaggio, nel milliamperaggio o nel posizionamento del paziente potessero comportare la differenza tra un esame diagnostico e uno completamente inutile. E poi, non meno importante, la enorme fatica speculativa di quei radiologi che, non avendo altro a disposizione, lavorarono per anni nel tentativo di dare un nome e un cognome alla pletora di ombre radiografiche che si incrociano senza apparente ordine. Immagino quindi i tentativi di interpretazione della radiografia, la valutazione con il chirurgo del pezzo operatorio e quindi la rivalutazione retrospettiva della radiografia; magari con il pezzo operatorio davanti e il chirurgo affianco, che puntava il dito contro il diafanoscopio (con chissà quali risultati, visti quelli già pessimi spesso prodotti davanti a immagini meno vaghe come quelle TC o RM).
Insomma, riguardando quelle immagini ho provato un grande senso di rispetto e riconoscenza per quei nonni e bisnonni radiologici che, pur non ottenendo risultati in grado quasi mai di modificare la storia clinica del paziente, hanno perseguito un metodo di lavoro e tracciato una strada maestra. Una strada che spesso e volentieri oggi noi nipotini tendiamo ad abbandonare, abituati come siamo alla tavola imbandita e al piatto pieno; e a volte inconsapevoli del fatto che anche dietro una immagine TC o RM deve celarsi una tecnica di acquisizione delle immagini ineccepibile e un metodo rigoroso di valutazione clinica e di refertazione. Altrimenti si rischia grosso: di restare dei morfologi in un tempo di Radiologia Clinica e di fare brutte figure non solo con i clinici ma anche con i nostri nonni. Laddove un referto TC come questo:
sfigurerebbe persino al confronto di quello che il dottor Griebel stilò circa sessanta anni fa, semplicemente guardando una radiografia confusa al cospetto della quale tutti noi, ma veramente tutti, non sapremmo davvero che pesci prendere.
(referto del dr. Griebel: Epiglottide e pliche ariepiglottiche regolari. Edema della zona aritenoidea. Il margine superiore della cartilagine tiroide appare sfumato e opacato per presenza di massa tumorale: tale opacamento interessa anche i ventricoli di Morgagni, che non sono più riconoscibili).

*** Sarebbe senz’altro interessante comprendere i meccanismi, casuali o meno, per cui un radiologo si appassiona a un distretto anatomico piuttosto che a un altro: anzi, se avete voglia di condividere i motivi che vi hanno condotti a diventare, per dire, esperti di pancreas o di prostata o di radiologia interventistica, inviatemi una e-mail. Poi vedremo come raccogliere le diverse esperienze, e dar loro un senso.

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