Non da molto mi ha scritto una studentessa in medicina, che chiamerò per l’occasione Emanuela. La sua è in parte una lettera come molte altre che ricevo, da persone nella stessa condizione di studente incerto sul futuro e senza punti di riferimento a cui chiedere consiglio, ma contiene in più un paio di riflessioni che mi hanno davvero colpito (in realtà colpito non è la parola giusta. La parola giusta è commosso: ma si sa, io sono un maschio ultraquarantenne dal cuore duro, e quelli come me non si commuovono mai).
Insomma, ho chiesto a Emanuela il permesso di stralciare qualche riga dalla sua e-mail e di condividerla sul blog.
Emanuela mi scrive: (…) Sin da piccola ho provato un’attrazione e al tempo stesso soggezione reverenziale per quell’odore che percepisco in ogni ospedale e che mi rimanda all’idea di un porto sicuro in cui tante persone gentili vestite di bianco si occupano di te. Crescendo ho capito che purtroppo negli ospedali non sempre va così, anzi purtroppo molto spesso sono luoghi di tortura e morte, ma nella mia mente e nel mio cuore io voglio essere una di quelle persone vestite di bianco che portano sorrisi (…)
Ecco, io vorrei tanto che gli studenti di medicina non fossero valutati solo per le nozioni che imparano o per la loro capacità di metterle in chiaro di fronte a un professore in genere molto annoiato del suo lavoro, ma anche e sopratutto per questo genere di empatia che, per alcuni è chiaro fin da subito, porteranno nelle vite altrui quando indosseranno un camice bianco. Che non è virtù da tutti e non è virtù per tutti, sia ben chiaro. La maggioranza di noi non ama l’odore dell’ospedale e non ama i suoi pazienti e soprattutto non ha nessuna intenzione di essere una di quelle persone vestite di bianco che portano sorrisi al prossimo. Il guaio è che quando ti accorgi che, come medico, puoi quasi sempre ben poco contro la malattia di una persona, portare quel sorriso può fare la differenza fra un medico bravo e uno meno bravo. Senza contare che quello stesso sorriso puoi portarlo nel luogo in cui lavori, che sogni sempre migliore di com’è nella realtà.
Ma Eleonora scrive anche: (…) Il mio percorso in questa facoltà è stato tutt’altro che lineare, varie vicissitudini mi hanno portato ad avere 27 anni e a non essere ancora laureata. Per me una grande sconfitta, da sempre abituata ad essere la prima della classe, diventare fuoricorso mi ha devastata. Ormai affronto gli esami con ansia, la premura di chi sa che si deve sbrigare, anche se poi costretta ad obbedire al mio innato perfezionismo, non mi riesce di accelerare (…)
E io vorrei dirle che non importa, che anni di esperienza di studio prima e lavoro poi mi hanno dimostrato con i fatti che non importa davvero, che quello della laurea non è un percorso di tempo ma di spazio: spazio che crei dentro di te, che devi riempire di buon cibo per la mente lasciando un posto in cui accogliere chi lavorerà con te e chi riceverà gli effetti del tuo lavoro. Io ho colleghi, per dire la fiducia, laureati in tempo perfetto e con il massimo dei voti ma da cui non mi farei toccare neanche con un dito. E ne ho altri, sempre laureati in tempo e con la lode, la cui aridità interiore li costringe a un’empatia negativa: quello che fanno, nel bene o nel male, lo fanno solo per sé stessi e mai per il prossimo. E queste sono persone, in ambito medico, pericolosissime: specie se qualcuno gli da’ licenza di organizzare il lavoro altrui. Io invece so una cosa: se studi con premura, quello che hai studiato rimane lì: e un giorno, quando meno te lo aspetti, sarà utile a te o a qualcun altro. Il tempo che impieghi è quello del tuo viaggio interiore ed è quello che realmente occorre: quando l’allievo è pronto il Maestro arriva sempre, e il bello può cominciare.