2012

di | 23 Luglio 2010

Suona la sveglia.

La spengo, mi volto dall’altra parte. Chiudo gli occhi. Niente da fare.

Avevo chiesto un giorno di ferie. Un venerdì qualunque, poteva essere la scusa per andarmene a sciare. Un fine settimana lungo, come altri cento. Ma il mio primario ha mangiato la foglia. Vi voglio tutti dentro, ha detto. Come se cambiasse qualcosa. Come se potesse esserci qualcosa di vero in tutta questa pagliacciata mediatica.

Oggi è il 21 dicembre. Alla fine è arrivato, il giorno del giudizio. Freddo. Neve. Strade semivuote. Cammino in un’aria immobile e trasparente come un sopravvissuto, come l’ultimo uomo rimasto al mondo prima della catastrofe. Le mie scarpe da neve scricchiolano in un silenzio innaturale. La rotonda dell’ospedale, a quest’ora campo di battaglia per automobilisti furiosi, è deserta.

No, non ci credo. Io non ci ho mai creduto a quelle boiate dei Maya sulla fine del mondo. Ce la menano da sempre con questa storia della fine del mondo: l’anno mille, il millennium bug, Nostradamus, le profezie di Padre Malachia. E io sono stufo. Due mesi fa mia moglie se n’è andata con un altro. Mia figlia vive in casa di un uomo che non è suo padre. Il mio lavoro non mi piace. Odio il mio primario, il suo modo obliquo di sfuggire alle responsabilità e scaricare la colpa dei suoi fallimenti sui suoi collaboratori. E sapete che vi dico? Dovesse davvero esserci la fine del mondo, io sarei contento. Davvero un buon modo di metterci una pietra su. Un modo sensazionale.

Quando arrivo in ospedale il portinaio mi fissa con aria bovina, poi preme il tasto che fa alzare la sbarra. Il gesto meccanico in cui si esauriscono le sue responsabilità quotidiane sembra costargli una grande fatica. Anche lui, chiuso nel suo gabbiotto, si sta congelando le chiappe.

Alle otto e un quarto i corridoi dell’ospedale sono deserti. La sala d’attesa del pronto soccorso pure. Io e i miei colleghi radiologi ci ritroviamo a metà mattina in sala medici, increduli e perplessi. Non si è presentato nemmeno un paziente. Tutte le liste di attesa andate inevase. I tecnici, quelli che non sono riusciti a ottenere qualche giorno di ferie, poltriscono sulle sedie, nelle rispettive sezioni diagnostiche. Le infermiere ammazzano il tempo sistemando i farmaci negli scaffali e nei carrelli salvavita. Noi sorbiamo il caffè in un silenzio innaturale. Qualcuno sfida l’atmosfera rarefatta con una battuta di bassa lega, ma anche le risate sembrano attutite. Spente. Risate di bocca, non di cuore.

In tutta la giornata si presentano quattro pazienti: uno la mattina e tre il pomeriggio. Due sono scivolati sul ghiaccio e si sono fratturati il polso. Poi un bambino di sette anni con l’appendicite: quando il chirurgo ha detto ai genitori che bisognava operarlo d’urgenza la mamma è scoppiata in un pianto isterico. L’ultimo è vecchissimo, quasi centenario, e respira a fatica. Ci hanno chiesto una tac perché sospettavano un’embolia polmonare e invece si tratta di un banale scompenso cardiaco. I nipoti del vecchio malandato, quando i colleghi del pronto soccorso gli hanno restituito il nonno tutto d’un pezzo, sembravano appena usciti da un incubo. Tirato un sospiro di sollievo, sono corsi a gambe levate fuori dall’ospedale. Eppure, dovesse davvero arrivare la fine del mondo, non riesco a immaginarmi nessun posto migliore di questo per farla finita.

Alle quattro del pomeriggio è già notte fonda. Fuori ricomincia a nevicare, in pronto soccorso non si vede più nessuno. Un paio di colleghi salutano il primario e vanno via: hanno fatto il loro dovere. Eppure si vede che non sono convinti. Francesco, giovane e scapolo, dopo dieci minuti torna indietro, si toglie il cappotto e si mette a sedere con noialtri in sala medici. L’infermiera Raffaella porta un vassoio con il millesimo caffè della giornata. Il primario accenna a una barzelletta, ma poi si ferma. L’aria è pesante, quasi immobile. Finiamo il caffè senza parlare, in preda a un’angoscia indescrivibile. Alvaro, l’aiuto anziano, si collega a internet. Dove tutto sembra normale, e la vita scorre come se niente fosse.

Alle sette di sera Antonio e Guido cominciano a litigare. All’inizio è una banale divergenza di opinioni su una diagnosi tac di qualche giorno prima, poi il livello di tensione sale all’inverosimile e i due cominciano ad alzare la voce e a scambiarsi insulti personali. Dei due, Guido è il più feroce: dice all’altro che i chirurghi ce l’hanno con lui e sbugiardano ogni suo referto, e che è stufo della connivenza di Antonio con quella gentaglia. Prima di uscire dalla stanza, sbattendo la porta, minaccia di rompergli il culo la prossima volta che dovesse venirgli la malaugurata idea di discutere un suo referto con un collega. Noi ci guardiamo in faccia. A questo punto della giornata, nessuno di noi è convinto che ci sarà sul serio una prossima volta.

Alle dieci siamo rimasti in tre, primario compreso, il quale decide che è ora di tornare a casa da moglie e  figli. Mentre infila il cappotto cerca di buttarla sul ridere, dice che anche stavolta l’abbiamo scampata bella. L’avevo detto io che sono tutte stronzate, dice. Io non rido. E invece chiamo mia figlia: lei sta già dormendo e sostiene che la chiamo solo per rompere le scatole. Dove sei stato tutta la giornata, chiede con tono inquisitorio. In ospedale, rispondo. Ecco, ti sei risposto da solo, dice. E mette giù il telefono.

Alle undici anche io e Francesco decidiamo di togliere il disturbo. Francesco mi chiede se davvero ci avessi creduto, a questa storia della fine del mondo; io gli rispondo che, più che altro, ci ho sperato fino alla fine. Lungo il corridoio, davanti alla porta della diagnostica toracica, sentiamo rumori e gemiti: forse due tecnici che fanno sesso. Mi viene in mente che non tocco una donna da quasi un anno, da molto prima che mia moglie facesse le valigie, e che comunque l’ultima donna che ho toccato non era mia moglie. Francesco sogghigna, a me vengono le lacrime agli occhi.

A mezzanotte meno un quarto spengo la televisione e mi infilo sotto le coperte del mio enorme e gelido letto matrimoniale. Un secondo fa, nel suo programma di approfondimento, il giornalista più potente d’Italia ha congedato gongolante gli ospiti di lusso della serata: politici, veline, astrofisici, psicanalisti di grido, geologi, ex soubrette rifatte e persino un chirurgo plastico, che una di quelle se l’è sposata e poi restaurata alla meno peggio. Tutti hanno detto di non aver mai creduto che le fandonie sulla fine del mondo avessero un fondamento, e la vecchia soubrette scosciata ha ironizzato sul fatto che, se avesse avuto anche solo il minimo dubbio, di certo non avrebbe passato l’ultima sera della sua vita dall’amico giornalista. Il quale ha sfoderato un sorriso mortale nel quale si leggeva chiaramente: che cazzo dici, brutta stronza, senza questo programma tu avresti chiuso in due mesi. Anzi, tu hai già chiuso perché in questo salotto televisivo non ci metterai più piede. Dovesse finire il mondo.

Alle sei e tre quarti suona la sveglia.

La spengo, mi volto dall’altra parte. Chiudo gli occhi. Niente da fare.

Avevo chiesto un giorno di ferie. Un venerdì qualunque, poteva essere la scusa per andarmene a sciare. Un fine settimana lungo, come altri cento. Ma il mio primario ha mangiato la foglia. Vi voglio tutti dentro, ha detto. Come se cambiasse qualcosa.

Come se potesse esserci qualcosa di vero, in tutta questa pagliacciata mediatica.

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