Il grande equivoco dell’individualità

di | 16 Ottobre 2021

Comunità: dal latino communĭtas (comunanza). Secondo il dizionario di Google è “l’insieme di persone unite tra di loro da rapporti sociali, linguistici e morali, vincoli organizzativi, interessi e consuetudini comuni”. Secondo il dizionario Treccani, è anche lo “stato giuridico di ciò che è comune”.

Società: più laconicamente, sempre secondo il dizionario di Google, è un “insieme organizzato d’individui”. Deriva dal latino sociětas, derivato di socius (socio). Anche il dizionario Treccani batte sullo stesso punto: la società è “in senso ampio e generico, ogni insieme di individui (uomini o animali) uniti da rapporti di varia natura e in cui si instaurano forme di cooperazione, collaborazione, divisione dei compiti, che assicurano la sopravvivenza e la riproduzione dell’insieme stesso e dei suoi membri”. Avete notato la differenza? La comunità è un insieme di persone, la società un insieme di individui.

Ma andiamo ancora oltre. Cos’è un individuo? Sempre secondo Treccani, il termine deriva dal latino individuus (indiviso, indivisibile) e indica “ogni singolo ente in quanto distinto da altri della stessa specie”. L’attributo dell’individuo, come l’atomo di Democrito, è insomma l’indivisibilità. Se teoricamente decidessimo di dividere una società in pezzi sempre più piccoli dovremmo necessariamente fermarci all’individuo in quanto, secondo la felice intuizione di Bauman, “unità più piccola alla quale ancora possibile attribuire la qualità dell’umanità”. Ma attenzione, dice anche Bauman, l’individualità è ciò che ci rende uguali agli altri: gli atomi di ferro, per esempio, sono identici e indistinguibili tra loro. E non va confusa con l’unicità, che in teoria è ciò che ci rende davvero diversi dagli altri. Ne consegue che, paradossalmente, la transizione dal concetto di comunità, in cui le singole persone (uniche, nel loro genere, ma entro certi limiti senza che l’unicità rappresentasse una qualità degna di nota) si univano per il bene comune, a quello di società, in cui i singoli individui si organizzano in forme complesse di organizzazione, ha determinato il transito da “persona” a “individuo” e ha sostituito il concetto di rapporto tra “persone” che mettono in comune qualcosa (beni, consuetudini) con quello di “soci” che, individualmente, collaborano per un qualche fine. In modo molto pertinente il socio, per il dizionario Google, è infatti chi sia “partecipe con altri di una qualsiasi impresa”.

L’ascesa dell’individuo, dice ancora Bauman, è stata la “spia del progressivo indebolimento della fitta rete di legami sociali che avviluppava strettamente la totalità delle attività della vita”. Togliendo forza ai legami sociali, insomma, aumenta la necessità di normare, quindi regolare nel dettaglio, i rapporti tra gli individui. Forse è una naturale evoluzione legata all’aumento del numero degli individui che componevano una comunità, fatto sta che le norme proliferano in carenza – o assenza – di legami sociali forti.

Il paradosso sta nel fatto che la società attualmente interpreta il concetto di “individuo” al contrario, e lo sostanzia nell’invito costante a essere diversi dagli altri. A questo punto è facile cogliere la contraddizione intrinseca al sistema, che è fonte delle schizofrenie di questi ultimi mesi: il compito arduo di distinguersi dagli altri individui, reso impossibile dalla struttura stessa della nostra società (che ci pretende tutti uguali – “ognuno vale uno” – e pertanto intercambiabili), diventa un atto autoreferenziale. La conseguenza di ciò è che il nostro percorso personale non è più mosso dal ragionamento o dal metodo scientifico (che sono imparziali, oggettivi, distaccati) ma dalle sensazioni: che non sono impersonali ma vengono percepite come segni di unicità perché solo “quella” particolare persona ritiene di poterle provare. Ci si può distinguere gli uni dagli altri, insomma, non sulla base dei dati di fatto (per esempio un talento specifico nel fare qualcosa) ma solo perché siamo in grado di provare sensazioni uniche e irripetibili. Da cui, immagino, il successo strepitoso dei social: una vetrina in cui la ragione non ha motivo di essere esposta ma ha visibilità solo il sentimento, la sensazione personale come epitome di unicità.

Questa premessa determina un’altra inevitabile conseguenza: se ci appoggiamo alle sensazioni e non alla ragione oggettiva, nella interpretazione/creazione della realtà, abbiamo bisogno di interlocutori che ci rassicurino sulla fondatezza delle nostre conclusioni arbitrarie: è questo il motivo per il quale tendiamo a dare fiducia istintiva e immotivata ai comunicatori di professione (influencer, fenomeni del coaching, motivatori, autocertificati esperti del ramo, spesso a pagamento) e ad aggregarci in gruppi composti da individui che la pensano esattamente come noi e che non mettono in discussione argomenti che non potrebbero reggere alla prova del metodo scientifico. Meglio ancora se con questi individui manteniamo rapporti interpersonali, mediati dalla distanza imposta dai social: il rapporto personale, de visu, impone (dice sempre Bauman) che “l’individualità venga affermata e rinegoziata ogni giorno attraverso un’interazione costante”. Il che comporta due sforzi epici: opporsi alla corrente della società, che tende a sottrarci il tempo necessario alle interazioni personali; e quello di mettere in discussione il proprio punto di vista, fondato in genere su sensazioni e non su dati di fatto oggettivi. Chi segue la strada della costruzione di un mondo basato sulle proprie sensazioni ha la tendenza a fuggire dal mondo stesso e a rifugiarsi in una società di individui tutti uguali a lui, che la pensano allo stesso modo, e nella quale si può finalmente sentire al sicuro. Immaginate che genere di battaglia interiore deve condurre una persona che lotta quotidianamente per far emergere la propria individualità finendo poi per far parte di una schiera di soldatini irregimentati a un qualche pensiero unico. Per forza che poi sbroccano e fanno le barricate contro il vaccino.

È un discorso complesso, me ne rendo conto, ma forse è l’unico in grado di fornire qualche indicazione su quello che accade ogni giorno, da mesi, nelle nostre vite, e che sta conducendo la società stessa a una violenta disgregazione. La soluzione, immagino, sta nella risoluzione dell’equivoco dell’individualità: se siamo individui non possiamo essere unici, e se vogliamo essere unici l’unica soluzione sta nel tornare comunità, quindi un’aggregazione in cui la norma non sia regola ma eccezione. E in cui, invece, la regola siano la fiducia reciproca e il ragionamento oggettivo sul bene comune. Certo, osservando la proliferazione delle norme in ogni campo delle nostre vite non c’è da essere ottimisti. Se penso al mio lavoro, e a quanto ogni suo aspetto sia minuziosamente e quasi schizofrenicamente normato, mi metterei a piangere: ormai lavorare è diventato motivo non di gioia, ma di terrore continuo.

Per cui non rimane che sperare in un miracolo. L’emergenza sanitaria non ha affatto diviso la gente: ha solo reso evidente che una parte ragionava ancora in termini di “comunità” e un’altra, più consistente, in termini di “società”. Parlavamo due lingue diverse già prima del covid, insomma. Il problema è che adesso parliamo tutti insieme, e non si capisce più niente.


Lo spunto per la riflessione è dato dalla illuminante rilettura di “Vita liquida”, di Zygmunt Bauman, Laterza Editori (2005).

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