Ai confini di Stephen King

di | 14 Settembre 2014

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Sabato. Agognato (si fa per dire) turno di guardia 8-20 nell’ospedale spoke della mia azienda, a causa di problemi gestionali che ovviamente (e fortunatamente) esulano dagli interessi speculativi degli amici internauti.

Sveglia presto, auto, radio a basso volume sintonizzata su Radio24 (così, giusto per farsi un po’ di sangue amaro appena svegli). Arrivo a destinazione presto, intorno alle 7 e quaranta: il tempo sufficiente per una colazione a volo.

Entro nel bar di fronte l’ingresso del nosocomio: la barista è simpatica come un manico di scopa infilato non vi dico dove e risponde al mio buongiorno con un laconico “ciao”. Insomma, andiamo proprio male: anche perché il caffè è una ciofeca e la brioche, a sentirne la consistenza, deve essere come minimo dell’altro ieri.

8 meno cinque: prendo la via dell’ospedale. Ricordo, da un turno fatto mesi prima, che dal parcheggio è possibile raggiungere, per vie interne, una porticina che si apre in radiologia. La raggiungo, miracolosamente, ma la trovo chiusa. Cavoli. E ora?

La cosa più ovvia, per una persona sagace e dotata di normale senso dell’orientamento, sarebbe stata girare intorno allo stabile e cercare l’ingresso principale. Io, che invece ho il senso dell’orientamento di un piccione viaggiatore col tumore al cervello e forse mi sto bruciando troppi neuroni con tutte quelle medicine per l’emicrania che prendo, inizio ad aprire porte a caso in direzioni a caso: pensando che sarebbe sufficiente riuscire ad entrarci, in quel maledetto ospedale blindato, e poi un cartello con le indicazioni per la radiologia dovrei pur trovarlo. Salgo e scendo per scale esterne, raggiungo vicoli a fondo cieco, mi perdo nei dedali dei giardini. Tutte le porte sono sprangate. Tutte, tranne una.

La apro. Corridoio semibuio che fa un angolo retto verso sinistra. Sul muro un cartello, con una freccia, che reca la scritta: Ai nuclei. Ai nuclei? Forse intende i nuclei medici e chirurgici: si sa che la fantasia toponomastica degli amministratori ospedalieri è almeno pari a quella dei responsabili della caserme militari. Giro l’angolo, salgo scale in una sospetta semioscurità e mi trovo di fronte all’ennesima porta chiusa. Spero sia quella che conduce in un qualche corridoio ospedaliero, la apro e entro.

Santo cielo, mi ritrovo in una specie di appartamento privato. C’è un atrio, a sinistra una stanza in cui intravedo un mobile con sopra un lettore cd, a destra un corridoio che conduce non so dove. Si sentono ovunque lamenti e sospiri, l’aria odora di cavolo lesso. Faccio un passo avanti, allungo il collo e vedo nella stanza a sinistra due donne anziane su sedia a rotelle: hanno lo sguardo vacuo, perso nel nulla. Se ne stanno lì immobili, un sottile filo di bava scorre giù dalla bocca di una delle due. Ma dove sono capitato? Ovunque sia, meglio fare marcia indietro prima che qualcuno mi veda.

Mi giro e afferro la maniglia, ma la maniglia è bloccata. Perdio, come bloccata? Riprovo con maggiore energia ma niente: la porta è chiusa e a quanto pare da questo lato non è possibile aprirla. Ma perché? Per quale motivo in questo posto infernale si può entrare ma non uscire? Lo sapevo, lo sapevo che prima o poi mi sarebbe toccato di entrare a piè pari in un libro di Stephen King. Adesso compariranno alieni spietati in vena di esperimenti su cavie umane, sparirò dalla circolazione e mi ritroveranno a novant’anni, su una di quelle sedie a rotelle, senza un rene e con il pannolone smerdato, che fisso il vuoto senza ricordare nemmeno chi sono e dove mi trovo.

E invece, proprio quando comincio a sentirmi perduto, compare una ragazza in divisa bianca. Sembra una persona normale, non un alieno, e mi guarda con aria interrogativa. Le dico: Domando scusa, sono il radiologo di guardia e le giuro che non ho la più pallida idea di come sono arrivato qui dentro. Lei secondo me non sa se credermi o meno, perché è oggettivamente difficile che uno, che per giunta dichiara di essere un medico, sia talmente fesso da perdersi nei meandri di un ospedale fino a quel punto di non ritorno, e nel dubbio che io sia uno squilibrato si offre subito di riportarmi in strada. Fa: L’ingresso principale è a cinquanta metri, se lo ricorda?

Certo che me lo ricordo, penso un po’ piccato mentre esco fuori da quella che, come testimonia la targa fuori dall’ingresso principale, non è la scena di un romanzo horror ma solo un ricovero per anziani non autosufficienti. Imbocco l’ingresso, mi perdo altre due o tre volte ma poi alla fine trovo la fatidica scala che conduce in radiologia. Arrivo alle 8 e venti, cerco subito il tecnico ma in non lo trovo. Passa di là un chirurgo, mi dice ghignando: Ma tu sei arrivato troppo presto, qui a quest’ora non c’è mai nessuno. In realtà non è vero, i due tecnici ci sono e stanno completando il primo esame di una estenuante giornata di dodici ore che mi vedrà refertarne la bellezza di 23 (tre dei quali ecografie che io stesso ho proposto al pronto soccorso per strapparmi a quella noia mortale): numero che in genere, nel mio ospedale, realizzo in poco più di un’ora.

Quando esco, la sera, sono quasi fresco come una rosa. Ho dimenticato l’angoscia strisciante dell’incubo mattutino, quando ormai temevo di non poter più uscire da quella che all’inizio sembrava una casa degli orrori, e una sola domanda mi frulla in mente: Ma perché non è in un posto del genere che lavoro ogni giorno? Poi però fuori è freschetto, raggiungo la macchina, metto in moto e parto. A certe domande, pavento, non c’è risposta. Almeno per ora.

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