In questi due lunghissimi anni di pandemia mi sono chiesto tante volte, inutilmente, quale fosse la causa dello scollegamento patologico tra intere porzioni del consorzio umano, tra persone abituate a vivere insieme da millenni. Ho posto la stessa domanda tante volte, quasi a chiunque, e non ho ottenuto risposte plausibili.
Stamattina, guardando gli aggiornamenti sulla guerra che abbiamo vicino casa, mi ha fulminato il cervello una parola: fiducia. È così da quando il primo uomo primitivo ha temuto che il membro della tribù nemica potesse portargli via il fuoco e gli ha spaccato la testa con una pietra. Non è cambiato nulla da allora: il problema è la fiducia.
La radice etimologica comune fid- delle lingue neolatine deriva dalla radice greca peith-, da cui originano il verbo peithoˉ (convincere) e il sostantivo pistis (fede), che a sua volta ancora deriva dalla radice sanscrita bandh- (legame, corda).
L’etimologia della parola ci insegna quindi che la fiducia nasce da un legame stretto; e anche che questo legame, per funzionare, deve essere convincente per entrambe le parti in causa. Cos’è andato storto, allora? Cosa ha reciso i nostri legami? Cosa rende insufficiente la fiducia che ispiriamo al prossimo?
Potrei pensare, a istinto: perdiamo la fiducia quando temiamo di perdere qualcosa, o non riusciamo a ottenere quello che vogliamo. Alla base della perdita di fiducia ci sarebbe quindi l’egoismo: che deriva dal latino ēgo (io) e indica, secondo il Treccani, “l’atteggiamento di chi si preoccupa unicamente di se stesso, del proprio benessere e della propria utilità, tendendo a escludere chiunque altro dalla partecipazione ai beni materiali o spirituali che egli possiede e a cui è gelosamente attaccato”.
Ma non è così semplice. La fede implica la disponibilità a contare su qualcosa che non puoi vedere né toccare. È un atto di abbandono, di affidamento (ancora quella radice etimologica) a qualcosa o qualcuno della cui affidabilità (e ancora), a differenza del risultato finale, siamo ragionevolmente certi.
Noi umani abbiamo una particolarità che più delle altre ci distingue dalle bestie: la capacità di raccontare storie. Lo facciamo da sempre, lo facciamo perché ci diverte, perché siamo annoiati, perché narrare storie è stato per anni il solo modo di trasmettere ricordi e conoscenze di una famiglia, un popolo o un intero pianeta. Assimilare la voglia (o il bisogno) di raccontare o ascoltare storie a una forma estrema di egotismo, in chi racconta, o di estrema ingenuità, in chi ascolta, è negare la fede (rieccoci) che abbiamo sempre avuto nella letteratura, da Omero in poi. È negare Dante, Tolstoj, Calvino. Equivale a negare che un essere umano sia tale, e regredire alla bestialità dell’animale che vive senza rendersene conto.
Le storie, come dico e scrivo da anni, ovunque, vanno raccontate. Raccontate-e-basta. Non importa chi le racconta, e come: forse è più importante il perché le voglia raccontare, ma neanche le motivazioni sono così determinanti perché alla fine abbiamo la libertà di leggere o meno quella storia, e di credere o meno a quello che leggiamo. Anche se raccontare storie, fossero anche un reportage di guerra o un resoconto dettagliato sul complotto mondiale ai danni della povera gente, implica un contratto di fiducia tra chi ascolta e chi narra. Confondere il desiderio di raccontare una storia con un irrefrenabile impulso narcisistico frantuma la fiducia di cui stiamo parlando e ci fa regredire, immediatamente, a uno stato primitivo.
E quindi? Cosa dovremmo fare? Io non lo so, davvero. Posso ipotizzare che la mancanza di fiducia, alla fin fine, sia legata al fatto che intravediamo negli altri le nostre stesse debolezze, e ne abbiamo timore. O che la paura di affidarci, per una miriade di motivi personali, sia così forte da condurci a posizioni preconcette. O che la felicità degli altri ci fa paura, e allora bisogna demitizzarla. O, ancora, che abbiamo obiettivi da raggiungere a ogni costo. Forse accadono tutte queste cose insieme, quando un esercito varca un confine e si mette a sparare a tutto ciò che si muove. O quando finiscono un’amicizia o un amore. O quando si smette di credere che una soluzione alternativa sia sempre possibile.
Ma l’alternativa è possibile solo se esiste un legame forte, se si è legati da quella famosa corda di cui narra, appunto, la radice sanscrita della parola “fiducia”.
La canzone della clip è “Chitarre blu”, l’ultimo singolo di Fulminacci (2022).