Al citofono in un sacco di parole tutte a caso, nei baci di Giuda, o il pane che butti

di | 27 Febbraio 2022

In questi due lunghissimi anni di pandemia mi sono chiesto tante volte, inutilmente, quale fosse la causa dello scollegamento patologico tra intere porzioni del consorzio umano, tra persone abituate a vivere insieme da millenni. Ho posto la stessa domanda tante volte, quasi a chiunque, e non ho ottenuto risposte plausibili.

Stamattina, guardando gli aggiornamenti sulla guerra che abbiamo vicino casa, mi ha fulminato il cervello una parola: fiducia. È così da quando il primo uomo primitivo ha temuto che il membro della tribù nemica potesse portargli via il fuoco e gli ha spaccato la testa con una pietra. Non è cambiato nulla da allora: il problema è la fiducia.

La radice etimologica comune fid- delle lingue neolatine deriva dalla radice greca peith-, da cui originano il verbo peithoˉ (convincere) e il sostantivo pistis (fede), che a sua volta ancora deriva dalla radice sanscrita bandh- (legame, corda).

L’etimologia della parola ci insegna quindi che la fiducia nasce da un legame stretto; e anche che questo legame, per funzionare, deve essere convincente per entrambe le parti in causa. Cos’è andato storto, allora? Cosa ha reciso i nostri legami? Cosa rende insufficiente la fiducia che ispiriamo al prossimo?

Potrei pensare, a istinto: perdiamo la fiducia quando temiamo di perdere qualcosa, o non riusciamo a ottenere quello che vogliamo. Alla base della perdita di fiducia ci sarebbe quindi l’egoismo: che deriva dal latino ēgo (io) e indica, secondo il Treccani, “l’atteggiamento di chi si preoccupa unicamente di se stesso, del proprio benessere e della propria utilità, tendendo a escludere chiunque altro dalla partecipazione ai beni materiali o spirituali che egli possiede e a cui è gelosamente attaccato”.

Ma non è così semplice. La fede implica la disponibilità a contare su qualcosa che non puoi vedere né toccare. È un atto di abbandono, di affidamento (ancora quella radice etimologica) a qualcosa o qualcuno della cui affidabilità (e ancora), a differenza del risultato finale, siamo ragionevolmente certi.

Noi umani abbiamo una particolarità che più delle altre ci distingue dalle bestie: la capacità di raccontare storie. Lo facciamo da sempre, lo facciamo perché ci diverte, perché siamo annoiati, perché narrare storie è stato per anni il solo modo di trasmettere ricordi e conoscenze di una famiglia, un popolo o un intero pianeta. Assimilare la voglia (o il bisogno) di raccontare o ascoltare storie a una forma estrema di egotismo, in chi racconta, o di estrema ingenuità, in chi ascolta, è negare la fede (rieccoci) che abbiamo sempre avuto nella letteratura, da Omero in poi. È negare Dante, Tolstoj, Calvino. Equivale a negare che un essere umano sia tale, e regredire alla bestialità dell’animale che vive senza rendersene conto.

Le storie, come dico e scrivo da anni, ovunque, vanno raccontate. Raccontate-e-basta. Non importa chi le racconta, e come: forse è più importante il perché le voglia raccontare, ma neanche le motivazioni sono così determinanti perché alla fine abbiamo la libertà di leggere o meno quella storia, e di credere o meno a quello che leggiamo. Anche se raccontare storie, fossero anche un reportage di guerra o un resoconto dettagliato sul complotto mondiale ai danni della povera gente, implica un contratto di fiducia tra chi ascolta e chi narra. Confondere il desiderio di raccontare una storia con un irrefrenabile impulso narcisistico frantuma la fiducia di cui stiamo parlando e ci fa regredire, immediatamente, a uno stato primitivo.

E quindi? Cosa dovremmo fare? Io non lo so, davvero. Posso ipotizzare che la mancanza di fiducia, alla fin fine, sia legata al fatto che intravediamo negli altri le nostre stesse debolezze, e ne abbiamo timore. O che la paura di affidarci, per una miriade di motivi personali, sia così forte da condurci a posizioni preconcette. O che la felicità degli altri ci fa paura, e allora bisogna demitizzarla. O, ancora, che abbiamo obiettivi da raggiungere a ogni costo. Forse accadono tutte queste cose insieme, quando un esercito varca un confine e si mette a sparare a tutto ciò che si muove. O quando finiscono un’amicizia o un amore. O quando si smette di credere che una soluzione alternativa sia sempre possibile.

Ma l’alternativa è possibile solo se esiste un legame forte, se si è legati da quella famosa corda di cui narra, appunto, la radice sanscrita della parola “fiducia”.


La canzone della clip è “Chitarre blu”, l’ultimo singolo di Fulminacci (2022).

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