E’ Natale.
Il pomeriggio della Vigilia ho preso l’ascensore e sono andato nella chiesetta del mio ospedale: mi sono reso conto di esserci entrato in precedenza solo una o due volte, negli ultimi dodici anni. La chiesetta era deserta e profumava di incenso, ma appena appena: come un vago sentore, un ricordo sfocato di Natali lontani e più o meno felici (felici, che vorrà mai dire questa parola).
Il giorno di Natale, che incidentalmente è anche il mio compleanno, ho accompagnato i bambini a messa. Negli ultimi anni non sono stato un fervido praticante, diciamo, ma credo sia bello e giusto che loro abbiano fin da piccoli idea di cosa possa essere una comunità: incontriamo i loro amichetti, i genitori dei loro amichetti (magari anche loro poco ferventi, ci basta uno sguardo per entrare in sintonia), si chiacchiera, ci si scambia gli auguri. Un normale Natale italiano, ecco.
Ma quest’anno, per motivi che non sto a dirvi, mi sono preso tempo per riflettere sulla direzione che sta prendendo la mia vita. Mi sono interrogato, per esempio, sul modo in cui sto lavorando; o, per meglio dire, sul modo in cui sto interpretando il mio lavoro.
Perché il mio, ditemi pure quello che volete, è il mestiere più bello del mondo. Quello del medico, intendo. Oh, lo so che qualcuno di fronte a questa affermazione storcerà il muso: la simmetria e la sicurezza di un progetto edile per l’ingegnere, mi direte, valgono di più. O la gloriosa giustizia insita nei commi del codice penale, per l’avvocato. La soddisfazione di un ragazzo che impara, per l’insegnante. Tutto vero, tutto giusto. Ma c’è qualcosa, nel mestiere che faccio io, che agli altri manca.
Chi mi segue da qualche tempo lo sa: ogni fine dicembre si tiene una cena organizzata da Gruppo di Studio di Patologia Toracica dell’ospedale in cui lavoro. Quest’anno il tema della serata è stato il rapporto tra noi (medici) e gli altri (i pazienti): tema interessante, pregno di significati, del quale voglio parlarvi adoperando la metafora ardita usata dal primario della Pneumologia.
Quando un medico si reca al lavoro è come un bicchiere pieno: di ansie personali, problemi familiari, guai di salute. Ma quando arriva in ospedale ha di fronte un altro bicchiere pieno: il paziente. E allora l’unico modo per affrontare degnamente il problema è decidere di vuotare parte del contenuto del nostro bicchiere, accettare l’idea che il bicchiere del paziente sia per forza di cose più pieno del nostro. Come medici, ci lasciano crescere nell’idea che il nostro sia un mestiere puramente tecnico: e invece abbiamo a che fare con le persone. Persone ammalate, sofferenti; o solo preoccupate. Con un bicchiere più pieno del nostro.
Il giorno della vigilia mi è stata chiesta una cortesia quasi personale dal primario di un reparto ospedaliero. Insomma, c’è questa giovane donna quasi accecata dal glaucoma, con un prurito incoercibile che la affligge da quasi un anno. Non bisogna mai credere a priori che il paziente sia ipocondriaco: e infatti la signora ha una massa mediastinica che, dieci a uno, puzza di linfoma (prima lezione ai futuri medici che seguono il blog: a volte i pazienti esagerano i loro sintomi, sono ipocondriaci, vi tormentano con quesiti clinici assurdi; ma tante altre volte, ed è la maggioranza dei casi, il paziente parlandovi urla la sua diagnosi). Il primario del reparto presso cui è accolta mi chiede una biopsia toracica: lo sa che è la vigilia, che siamo in difficoltà di personale, ma si può fare qualcosa per accelerare la diagnosi? Certo che si può. Come dico sempre, il sistema sanitario sta in piedi grazie alle persone che ci lavorano, non ad altro.
La signora è bella e dolce. Non fosse per quegli occhi sofferenti, che ormai non ci vedono quasi più, sembrerebbe una madonna del Botticelli. E’ anche molto preoccupata: il giorno prima ha fatto una broncoscopia, le hanno spiegato in cosa consiste la manovra bioptica ed è sul punto di piangere. Bene, non starò a raccontarvi la manovra per filo e per segno: vi basti sapere che tutto è andato per il meglio e che la signora non ha quasi sentito dolore nonostante il calibro dell’ago che le ho infilato nel petto. Quello che importa sono le parole finali che ci siamo detti; anzi, per la verità solo quelle che lei ha rivolto a me.
Perché lei mi ha preso la mano, ha girato il viso verso di me e ha detto: Io non posso vederla, lo sa, però la sua voce mi ha rassicurato per tutto il tempo della procedura.
Ecco, questo è stato il mio regalo di Natale. I pazienti ci scelgono, non è mai il contrario, e poi bisogna essere all’altezza del compito che ci è affidato. Questa potrebbe essere la seconda lezione ai futuri medici che seguono il blog: ma poi chi sono io per dare lezioni a qualcuno, Natale è passato, oggi sono di guardia, e tanti auguri a tutti.