Nella mensa del mio ospedale lavora, tra le altre, una signora di straordinaria cortesia e gentilezza. E’ una signora non giovanissima, dallo sguardo mite, che quando serve le portate ti scruta per valutare a spanne il tuo livello di debilitazione alimentare e comunque chiede sempre se la porzione è sufficiente.
Questa signora ha una particolarità veramente straordinaria, sulla quale ho fatto mente locale da pochissimi giorni: quando la si incontra, salutandola con il più cordiale dei “buongiorno”, lei non risponde “buongiorno”. Lei risponde, inopinatamente: “grazie”.
Che a pensarci bene ha pure ragione lei: il buongiorno non è un equivalente raffinato o distaccato del ciao: che, ricordo agli smemorati, deriva dal veneto “sciavo”, ossia schiavo (in epoche passate si usava approcciarsi al prossimo dichiarandosi, come peraltro accadeva anche in altre regioni italiche, servo dell’interlocutore. Un vezzo che noi italiani non abbiamo mai del tutto abbandonato, pare). Il buongiorno è un augurio, non un saluto: e chi lo riceve ringrazia per la gentilezza d’animo di chi lo ha augurato.
Nel caso specifico, la signora della mensa quasi mai al “grazie” aggiunge il suo “buongiorno”: ma non è necessario, credetemi, il buon augurio è tutto nei suoi occhi e nella cura che impiega a servire una portata abbondante all’ospedaliero affamato e pure un po’ stanco.