Il ragazzo disteso sul lettino dell’ecografia aveva tredici anni quando, nel 2006, la nazionale di calcio italiana vinse demeritatamente (per non dire vergognosamente) il suo ultimo mondiale di calcio. A distanza di quattro anni conserva ancora intatto l’entusiasmo per quella serata della finale vinta ai rigori: della quale io, personalmente, mi vergognai molto, ma che a lui valse una nottata di festeggiamenti in giro per la città insieme a suo papà.
Il ragazzo mi chiede quanti anni avessi quando l’Italia vinse i mondiali dell’82, quelli spagnoli. Ironia della sorte, anche io avevo tredici anni: così, quando insiste a farsi raccontare come fosse andata in quella leggendaria occasione, ricordo un sacco di cose.
Per esempio, il pomeriggio della partita con il Brasile. Ero appena arrivato con la mia famiglia nella località marittima in cui passammo il mese di luglio, l’ultimo delle vacanze estive familiari tutti insieme. L’appartamento era spazioso e bene ammobiliato ma ai tempi la televisione in vacanza era ancora un optional. Ricordo che ascoltai la partita alla radio, disteso su una sdraio in giardino, leggendo un libro: nessuno, nemmeno io, credeva che l’Italia ce l’avrebbe fatta. La radiocronaca fu una sorpresa: smisi di leggere per seguire la partita, evento che per me è assimilabile a un principio di follia, e rimasi incollato alla radio fino alla fine.
Al momento della semifinale, qualche giorno dopo, avevo già fatto amicizia con i ragazzi del villaggio e mi ero fatto stregare dagli occhi azzurri di una ragazzina che mi diede un solo bacio e poi non disse più una parola per tutto il mese. Guardai la partita con la Polonia con qualcuno di loro e poi andammo a giocare a pallone nel campetto lì vicino. Che l’Italia vincesse sembrò a tutti molto naturale.
La sera della finale ero in una sala sterminata, insieme ad altre duecento persone, tutti intenti a guardare i nostri frombolieri che irridevano i presuntuosi calciatori teutonici. Le schermaglie verbali con i turisti tedeschi erano cominciate già da diversi giorni, ci prendevamo in giro ogni volta che ci si incrociava in strada o in spiaggia. C’erano già state diverse finali virtuali tra noi ragazzi italiani e quelli tedeschi, con diversi esiti a seconda delle forze in campo: un colosso di diciassette anni, nella seconda finale, mi fulminò con un bolide da venti metri di distanza. Dalla mia porta nemmeno vidi la partenza del pallone.
A partita finita fui trascinato a forza nella vicina cittadina costiera da padri di amici letteralmente invasati: mi ritrovai in mezzo a fiumi di persone festanti che si abbracciavano nelle strade e nelle piazze, bandiere italiane sventolate ovunque, macchine in coda in pieno centro. E, sperduto in tutto quel marasma, ricordo di essermi sentito all’improvviso molto solo e di aver formulato forse il mio primo pensiero da adulto: Ma questi qui che cazzo stanno festeggiando? Insomma, tutto quel festeggiamento, anche dal basso dei pochi anni che mi ritrovavo sul groppone, mi parve molto sproporzionato rispetto alla causa che lo aveva generato: undici ragazzotti ipervitaminizzati che molto fortunosamente, visti gli esordi del mondiale, avevano trovato il modo di tirarla spesso dentro alla porta avversaria.
Ecco, questo è il mio ricordo della notte della grande finale, esordita dopo i numerosi “campioni del mondo” scanditi dal compianto Nando Martellini: il ragazzo dell’ecografia, a fine esame, si è asciugato la pancia e mi ha ringraziato di averlo condiviso con lui. Ho l’impressione che non abbia capito esattamente cosa volessi dirgli con il mio racconto: ma credo che il tempo farà la sua parte.
O almeno lo spero.