C’è un luogo, nel mio ospedale, che a seconda di come lo si guarda può sembrare il paradiso o l’inferno: quel luogo si chiama terapia intensiva neonatale.
Dove entri e c’è una fila di incubatrici bianche, e dentro le incubatrici questi neonatini minuscoli, ma così minuscoli che qualcuno ti sta nel palmo della mano. Attaccati a tubi, fili, flebo, mascherine; eppure vivi. Li vedi respirare con affanno, tutti piccoli e rugosi come sono, con quelle mani piccole e le unghiette rosee, e sai che sono appesi a un filo: ma sono vivi, e vivi vogliono rimanere.
Io, come tutti, ho un lato debole. Un punto in cui il coltello, quando entra, è come se penetrasse in un panetto di burro. Se mi chiama un pediatra, io mollo tutto: fossero anche le quattro del mattino e avessi appena preso sonno. Figuriamoci se a chiamarmi è un medico della terapia intensiva neonatale, e a metà pomeriggio.
Sono salito su da loro perché la collega aveva bisogno di una guida ecografica per drenare il versamento pleurico di un prematuro: il torace del pupetto era grosso come il mio pugno, più o meno. E più tiravamo fuori quel liquido biancastro che gli schiacciava il polmone, meglio respirava; e noi con lui, credo.
Durante la manovra due infermiere gli tenevano le mani e la testina, e lo guardavano con una dolcezza infinita. Una di loro lo carezzava con il dorso di un dito: piano, con la stessa delicatezza con cui si tocca un cristallo sottile e fragile.
Sono carezze che lasciano un’eco. E se quel minuscolo bambino dovesse farcela, e perdio se ce la farà, sono convinto che quella eco non lo abbandonerà mai. Dovesse campare cent’anni.
E forse neanche dopo.