Caro Gaddo, come si fa a dire?

di | 18 Aprile 2013

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(…) Caro Gaddo, scusa la domanda a bruciapelo: come si fa a dire, a una persona che ti è amica, di cui stai seguendo la sua battaglia, che la malattia sta proseguendo, che la gioia che tiene dentro in realtà è infondata? Lo so, ci hanno insegnato che i pazienti devono essere tutti uguali: sappiamo tutti benissimo che non è vero, ci sono persone che ci restano più nel cuore, e fare la risonanza a queste persone scoprendo il peggioramento, può essere letteralmente un pugno nello stomaco. Scusami lo sfogo, ma so di scrivere ad una persona che può esprimermi il suo pensiero, e il suo consiglio da medico, e non i miei professori universitari, bravi solo a fare referti (e non sempre bene) (…)

Queste sono le parole che mi ha scritto Arturo, specializzando in radiologia, qualche giorno fa: sono parole che puntano il dito su una questione difficile, ma tanto, del nostro mestiere di medici. Già: perché come si fa a comunicare una notizia terribile a una persona cara? A volte è difficile dire cose del genere anche a perfetti sconosciuti, figuriamoci agli amici.

E allora? C’è che la questione andrebbe sviscerata, insieme a molte altre che rimangono in margine, a partire dalle Scuole di specialità. La comunicazione non è un’arte e ha modalità che possono essere insegnate, imparate e sviluppate, ognuno secondo le proprie attitudini personali. E se possiamo permetterci di essere cattivi comunicatori nella nostra vita privata, e gloriarci del cattivo carattere che la natura ci ha destinato perché tanto inimicizie, divorzi e parenti che non ci rivolgono più la parola sono affari nostri, nel mestiere di medico tutto cambia in modo radicale.

Sull’ultimo numero de “Il Radiologo” c’è un interessante articolo (Il medico radiologo e la radiologia visti dal paziente, E. Pofi, Il Radiologo 4/2012) che parla proprio di questo: se per qualsiasi paziente esiste un momento di difficile gestione, di tensione assoluta e quasi incoercibile, beh, state certi che si tratta del momento in cui il referto di un nostro esame gli viene consegnato. Il 97% dei pazienti interpellati, ossia quasi tutti, ha risposto che gradirebbe ricevere il referto dal radiologo che ha effettuato la prestazione: allo scopo, ovviamente, di potergli chiedere tutte le informazioni necessarie. Per poter ricevere il referto dalle mani sante del radiologo, addirittura, il 67% dei pazienti sarebbe disposto ad aspettare in sala d’attesa un’ora e il 12%, udite udite, fino a quattro ore.

Il radiologo insomma, contrariamente all’idea che si ha di lui come di un operatore del tutto avulso da qualsiasi rapporto fisico con i pazienti, quando bisogna comunicare notizie circa il loro stato di salute spesso è  in prima linea. Fosse solo per il fatto che è stato lui a eseguire fisicamente l’esame e a chiunque, mentre si asciuga la pancia dal gel dell’ecografia appena terminata, viene spontanea la domanda: Dottore, come sto? Ho un brutto male? 

Capite quindi che la questione non è meramente gestionale ma possiede una profonda radice etica, non è di secondaria importanza e in teoria dovrebbe far parte di quell’insieme di progetti formativi destinati a qualunque futuro radiologo. E dirò di più: sarebbe ora che l’attenzione al paziente, anche e soprattutto da parte di amministrazioni politiche di vario ordine e grado, si esaurisse non più nelle facili, inutili e persino deleterie iniziative demagogiche di chi sente la poltrona bruciare sotto il culo, ma che si traducesse in iniziative che conducono a un concreto vantaggio per il paziente. Creare spazi per la comunicazione diretta con i pazienti oncologici, per esempio, anche a costo di rivedere la gestione delle liste di lavoro, potrebbe avere un senso. Creare improbabili spazi lavorativi notturni, magari per fare la risonanza magnetica al ginocchio artrosico della nonnina novantenne, un po’ meno.

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