Arrivo in palestra tardi, uno di quei rari pomeriggi in cui posso permettermi di fare tardi a casa. Varco la soglia, supero lo shock iniziale degli odori di varia umanità che mi ha sempre reso faticosa, insieme alla mia proverbiale pigrizia fisica, la frequenza costante delle palestre (senza contare che odio far pesi e correre su un tapis roulant: ma mia moglie mi ha obbligato, dice che ho l’età giusta per il primo infarto e che devo far qualcosa prima che ciò accada), ed entro nello spogliatoio.
Dentro ci sono due ragazzini, adolescenti da poco, che parlano. Il primo, palestratissimo e con lo sguardo giusto, dice all’altro: Mia madre fa sempre ritardo, dice che viene a prendermi alle sei e poi alle sette meno un quarto sono ancora qui che aspetto. Per fortuna non ho troppi compiti per domani.
Anche la mia fa ritardo, ammette l’altro, che è molto meno palestrato e a dire il vero anche un po’ grassottello, con aria triste. Però io i compiti me li porto qui, così mentre aspetto mi porto avanti.
Cos’è che fai? chiede il primo sgranando gli occhi.
Faccio i compiti qui, in fondo studiare mi piace e lo faccio volentieri dove posso, risponde l’altro. Che adesso sembra sull’orlo dell’imbarazzo.
Ti piace studiare? incalza il primo, sempre appoggiato con le spalle allo stipite della porta con aria disinvolta da presa per i fondelli. Ma come si fa? Lo sai che sei un tipo strano?
E poi mi guarda ammiccando, come se cercasse un appoggio dal testimone di passaggio per infliggere il colpo di grazia all’idiota globale con cui sta parlando. L’altro frigge, è arrossito, vorrebbe ribattere in modo intelligente ma si vede che non gli vengono le parole giuste.
Io guardo il palestrato negli occhi e dico: Adesso lui ti sembra strano, come dici tu. Ma tra vent’anni, quando anche grazie allo studio di oggi pomeriggio ti avrà fatto il culo in tutti i campi possibili della vita, donne comprese, mi sa che cambierai idea.
Il palestrato rimane appoggiato allo stipite della porta, con in viso un’espressione confusa e non più da presa per i fondelli. L’altro non dice nulla, mi fissa con occhi illuminati di gioia, saluta educatamente tutti e infila la porta.
Sono stato un po’ stronzo? Certo che lo sono stato, e anche parecchio: zittire un bulletto di quattordici anni non è più un’impresa meritoria o eroica, alla mia veneranda età. Devo solo aggiungere, a parziale discolpa, che la frase non aveva lo scopo di far abbassare la cresta al bulletto. Era a beneficio di quell’altro; e credo che lui l’abbia capito bene, tutto quello che volevo dirgli fra le righe.