C’è un posto nel tempo e nello spazio dove possiamo essere tutti liberi

di | 15 Aprile 2016

Ed eccomi di ritorno a casa da casa, in un certo senso: dal luogo dove sono nato, professionalmente parlando, e ho vissuto gli anni più felici della mia vita.

Sto parlando della cittadina alle pendici delle Alpi dove mi trasferii subito dopo la specialità: un luogo così lontano da dove son nato che il solo pensiero piega le ginocchia; ma anche l’unico, credo, dove io mi sia davvero sentito a casa in vita mia. Almeno finché è durata, cioè tutto sommato abbastanza poco: tre anni di passeggiate in uno dei suoi tanti centri, lungo la strada che costeggia il bel fiumiciattolo che la attraversa, di cene fuori senza fretta di tornare a casa, di aiuole fiorite e parcheggi facili, di una stupenda casetta in affitto e di buon lavoro, in tempi ancora lontani dalla crisi strutturale dei nostri giorni. Tempi in cui tutto poteva ancora succedere ma io non mi aspettavo niente: il massimo che si può pretendere dalla vita, credo, con il senno di poi.

Il mio ospedale nel mentre è cambiato, il reparto in cui ho mosso i primi passi completamente rimodernato, quasi stravolto. Ho rivisto i pochi tecnici rimasti in servizio dai miei tempi, una segretaria dalla voce inconfondibile, abbracciato qualcuno dei miei vecchi colleghi. Sono entrato nel mio antico studio e guardando dalla finestra la cresta delle montagne, così vicine, mi sono ricordato di quando uscivo dall’ospedale, in piena notte, dopo una delle tante chiamate in reperibilità, l’aria profumava di freddo e di resina pinestre e tutto era al suo posto, tutto andava come doveva andare.

La vita ha questa stranezza di fondo che talora disorienta: il modo in cui cambiano le prospettive è vertiginoso, e la velocità con cui ciò accade spesso è anche peggiore. Ma c’è una lezione che ho imparato in questi ultimi 15 anni così frenetici: che in fondo sono sempre stato un ragazzo fortunato, io, anche oltre la fortuna che avrei meritato sulla base delle mie azioni e della coerenza che dovrebbe, e dico dovrebbe, costituire l’anima metallica di chi vorrebbe stare diritto come un fuso e poi invece si fa piegare dagli eventi.

Così ritornare a casa da casa, per modo di dire, diventa un modo utile per guardare da lontano le cose della propria vita e anche, in ultima analisi, sé stessi. Nelle curve della propria storia succede spesso una cosa che racconta benissimo Gabriel Garcìa Màrquez in L’amore ai tempi del colera: sopra i propri ricordi va inevitabilmente fatto crescere un bellissimo campo di papaveri, del quale (aggiungo io) bisogna poi imparare a godere. Godere degli spazi rimasti vuoti, in qualche modo, ed essere felici. Io ci sto provando e già provarci mi rende felice.

Credo che, in qualche modo, si percepisca.

La canzone della clip è Lucky, di Kat Edmonson, tratta dall’album Way down low (2013). Kat è una splendida cantante jazz americana, nata nel mio anno magico e con un viso dalla bellezza esile e spigolosa, di quelli che piacciono a me. Il testo della canzone è molto dolce, come la musica, e come probabilmente anche l’autrice.

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