Natale 1982. Quattordici anni appena compiuti.
Sto per salire su un treno che da Pescara mi riporterà a casa: è il 30 dicembre e ho passato parte delle vacanze natalizie a casa dei miei zii. Nevica forte mentre la zia mi porta in stazione per il primo degli innumerevoli viaggi in treno della mia vita. E’ preoccupata, la zia, e mi subissa di raccomandazioni: attento alle fermate, attento ai bagagli, ti ho messo un panino nello zaino, l’acqua è nella tasca laterale. È così preoccupata che quando mi porta sul treno e realizza che nel mio scompartimento (ebbene si, ho fatto in tempo a vedere i treni con gli scompartimenti a sei posti) sono già seduti cinque ragazzi sui vent’anni, con grande sollievo, mi affida letteralmente a loro.
I ragazzi sorridono, sono amici e viaggiano insieme: mi coccoleranno per tutto il viaggio, fino alla stazione di Vairano Scalo. Quando mi vedono preoccupato, perché a ogni fermata guardo il nome della stazione per essere sicuro di non saltare la mia destinazione e scendere a casa di dio, provano a farmi distrarre. Una di loro, carina come un angelo, mi chiede che genere di musica ascolto: io balbetto qualcosa, in realtà sono ancora quel tipo di ragazzino che più che altro gira la manopola della radio e oltre Umberto Tozzi non è mai andato. Ma dagli zii ho ascoltato “Strada facendo” di Claudio Baglioni e mi è piaciuto moltissimo, al punto che lo zio mi ha registrato una C90 con quel disco su un lato e l’ultimo di Toquinho dall’altro. Glielo dico, loro sorridono e cominciano a parlare di musica. E di Franco Battiato, anche.
Gli ultimi anni, me ne ero accorto ascoltando la radio, sono stati pieni di Battiato. L’era del cinghiale bianco. Patriots. La voce del padrone. L’arca di Noè, l’ultimo uscito. Ma lo dico chiaramente: Battiato proprio non lo capisco. La musica non è orecchiabile come quella di Baglioni, i testi incomprensibili. A volte credo, dico anche quello con disarmante ingenuità, che Battiato ci stia prendendo tutti per i fondelli: mischia citazioni a caso, come dentro un frullatore, e produce storie senza capo né coda, una schiuma senza sapore. I ragazzi sorridono ancora, come se la sapessero molto più lunga di me, e mi offrono un frutto da mangiare.
Io mi sento un po’ stupido ma loro continuano a coinvolgermi nella conversazione, parlano dei singoli album, delle singole canzoni, ne sviscerano i testi. Io resto ai margini, anche se loro sono molto gentili, perché a volte perdo il filo del discorso. Trovo che le ragazze siano bellissime e i ragazzi molto educati, cortesi. Mi ritrovo a sperare di diventare da grande come uno di loro, e frequentare ragazze come quella che è seduta accanto a me.
Poi il treno arriva, più o meno puntuale, io ringrazio, saluto tutti e scendo. Loro si affacciano dal finestrino (e si, ho anche visto treni con il finestrino che si apriva) e si accertano che qualcuno venga a prendermi. Quel qualcuno è mio padre: spero si senta fiero della prima traversata in treno degli Appennini del suo figlio cadetto. Né io né lui sappiamo ancora che sarà solo la prima di un miliardo, negli anni a seguire.
Poi, dopo una quantità di tempo che a me è sembrata enorme, sono cresciuto anche io. Ho cominciato ad ascoltare musica seria, a costruire un mattone per volta la mia personale collezione di dischi, e tra questa anche quella di Franco Battiato. E così ho scoperto che avevano ragione loro, quei ragazzi meravigliosi che si erano presi in carico un quattordicenne alla prima trasferta in solitaria della sua vita. Perché Battiato era davvero un genio, proprio come avevano detto durante il viaggio.
Certo, poi ho scoperto che qualche presunto intellettuale organico sarebbe stato d’accordo con il me stesso pre-adolescente (“Tu ti vai a fare le analisi dei suoi testi e sono delle minchiate assolute, citazioni su citazioni e nessun significato reale”): ma ormai non mi meraviglio più di niente. A occhio e croce, direi che sul fine vita neanche Franco Battiato si meravigliasse più di nulla: smemorarsi, prima di accomiatarsi definitivamente dal mondo, forse è stata la migliore risposta possibile a tanta imbelle superficialità da terzo millennio.
La canzone della clip è la celeberrima “Centro di gravità permanente”, dall’album “La voce del padrone (1981). Quello che tutti, salvo gli intellettuali organici dediti a battaglie risibili, stiamo cercando da sempre.