Che sarei stata buona anche se avessi guadagnato dieci sterline

di | 23 Luglio 2021

Esiste sempre un momento preciso in cui una crisi o uno stato di emergenza si cronicizzano: e a quel punto diventano in senso lato istituzionali, la semplice e terribile normalità delle cose. Quel momento, quando arriva, fa il rumore dello scatto di un ingranaggio ben oliato: secco, metallico, inconfondibile. Quando l’emergenza si è strutturata, coagulata nel quotidiano, cristallizzata in forme abnormi ma reali, si possono tenere soltanto due tipi di atteggiamenti, opposti tra loro.

Il primo riguarda, in rapida successione, i concetti di scappare, mollare, abbandonare la nave, cercare di salvarsi la pelle, far perdere le proprie tracce, fingersi morti come gli opossum, cercar fortuna altrove, emigrare nelle Americhe.

Il secondo: resistere, cercare e trovare motivi di soddisfazione nei tentativi donchisciotteschi di opporsi al crollo del sistema, esercitare una forma di resistenza allo sfacelo che ha valore non assoluto, perché siamo tutti piccoli e impotenti, ma relativo alla situazione che si sta vivendo. Il valore, per esempio, che i monaci benedettini davano alla loro regola: ora et lavora. Prega e lavora, e basta, anche se non porterà alcun vantaggio pratico: in questo senso, la maggioranza di noi medici ospedalieri è come i monaci medievali. O come i cavalieri templari: si combatte una guerra già perduta in partenza, viste le premesse, vista l’assenza di programmazione a livello nazionale, visti la miopia e il dolo a livello regionale. Ma la si combatte lo stesso, la nostra fottuta guerra, perché la natura del nostro desiderio non risiede nel risultato finale, nella vittoria della guerra, ma nel combattimento di ogni singola battaglia quotidiana.

Dico questo perché esiste è una forma di piacere sottile, un po’ sadico ma anche un po’ masochista, nel ritrovarsi in pochi nella trincea, e serrare i ranghi. C’è una forma di soddisfazione anomala nel ritrovarsi la mattina, fare il conteggio delle assenze impreviste e prendere il caffè con il collega che sbuffa perché la situazione è difficile ma poi è il primo a prendere di nascosto i tuoi esami e a refertarli al posto tuo. Oppure imbattersi nella collega dal sorriso contagioso, quella che trova sempre il tempo e il modo per strapparti una risata e anche lei, di nascosto, si impegna a sottrarti sistematicamente il lavoro in eccesso con un lavoro silenzioso da formica operosa.

Io non sono convinto che i romani del quarto secolo avessero coscienza della direzione che stava prendendo la loro storia, del declino inesorabile che in poche decine di anni li avrebbe inesorabilmente schiantati e avrebbe aperto le porte di Roma alle invasioni barbariche. Allo stesso modo, in questo momento non ho precognizioni affidabili circa il destino della sanità pubblica: anche se fatico a immaginare un futuro sostenibile in cui i medici tornino a lavorare negli ospedali felici, soddisfatti del loro lavoro, ben pagati, con ritmi accettabili, senza il fiato sul collo di denunce civili o penali da parte di pazienti soddisfatti (pazienti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sarebbero andati incontro a morti più dolorose e spietate di quelle toccata in sorte per gli eventuali errori medici).

Quando vengo a sapere, e lo vengo a sapere sempre più spesso, che colleghi valenti hanno abbandonato carriere affermate per trasformarsi in globetrotters il cui unico fine non sembra tanto l’esercizio in sé della professione ma il miraggio di un guadagno più adeguato alle proprie aspettative, mi torna sempre in mente il principio cardine a cui ho affidato la stragrande maggioranza dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni. Nonostante le mie evidenti inclinazioni umanistiche io, tanti anni fa, mi sono imbarcato su una nave battente bandiera scientifica e quindi sono abituato a ragionare col metodo cosiddetto scientifico. E di conseguenza sono addestrato da almeno un quarto di secolo a valutare e le cause dagli effetti che provocano sulla breve, media e lunga distanza.

Quindi penso che l’errore di programmazione possano commetterlo tutti: non siamo esseri infallibili, la nostra capacità di raziocinio e di calcolo non è infinita. Essersi ridotti questa situazione, poco meno di trent’anni dal giorno della mia laurea, implica probabilmente che alla base della crisi del sistema sanitario nazionale non c’è l’errore umano, il calcolo sbagliato, l’errore di valutazione. Ma il dolo.

Ecco, io di questo dolo conosco i volti, i nomi e cognomi, e gli effetti delle loro azioni espressi da leggi, commi, progetti politici folli e a tratti suicidi: e di quello che so mi piacerebbe poter mettere a parte tutti. A ben pensarci, però, è almeno 15 anni lo faccio: ma l’unica conseguenza, quindici anni dopo l’apertura del mio blog e di questo profilo facebook, è che mi ritrovo con molti meno amici e sodali di quanto avrei creduto e sperato, mentre l’impero crolla e noi superstiti della centuria ogni sera ripuliamo il sangue dalle spade e le riaffiliamo per la battaglia del giorno dopo.


La canzone della clip è “That would be good”, di Alanis Morissette, tratta dall’album “Suppodes Former Infartuation Junkie” del 1998.

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