Prima di partire per le ferie volevo scrivere un ultimo post. Qualcosa di epocale. Una pietra miliare. Il giro di boa. Poi, mentre lo scrivevo, mi sono accorto che ero già al terzo chilogrammo di parole e non avevo ancora quagliato niente; e d’altronde è noto, la prima regola di un post è la brevità. Va bene il raccontino lungo piazzato ogni tanto senza che nessuno se ne accorga, ma il post no (e io già sforo abbastanza dalla regola, sebbene senza grossi sensi di colpa). E invece lui, il post chilometrico, parlava di un sacco di cose. Troppe.
Di come lo studio universitario sia folle, per esempio: nel 1990 studiai l’esame di patologia medica, che all’epoca era in blocco unico, per sei mesi di fila. Giorno e notte, notte e giorno. All’esame il prof mi chiese di parlargli dell’infarto, e io gliene parlai con dovizia di particolari, pur senza averne mai visto uno. Di pazienti con l’infarto, intendo. E mentre ne parlavo la sensazione dell’incongruenza fra l’argomento dell’esame e l’esperienza diretta che ne avevo mi assalì all’improvviso, disorientandomi per qualche istante con una sensazione di tristezza infinita. Dovette accorgersene anche il canuto professore, ma d’altro canto dopo tre ore di esami credo che anche lui si stesse annoiando il suo giusto. Ognuno raccoglie ciò che semina, credo. Oppure no?
Poi parlava, tanto per cambiare, del mio lavoro di oggi. In cui la differenza, secondo me, non la fa la cultura medica. Quella ti orienta in un senso o nell’altro, ma non ti risolve quasi mai i problemi; e poi c’è sempre il libro, che in queste occasioni, e non solo in queste, è il miglior amico dell’uomo (un collega mi raccontava che alla Mayo Clinic, dove aveva frequentato in gioventù radiologica, tutti lavoravano con la pila di libri accanto al dittafono. E se lo fanno gli ammericani, baby, perchè noi dovremmo vergognarcene?). E allora cos’è che fa la differenza tra un professionista e l’altro? Quando tu sei lì, da solo, seduto davanti al tuo schermo luminoso, con la lingua tra i denti e il libro aperto sulla scrivania? Cosa produce la Qualità a cui tutti, o quasi tutti, diciamo di aspirare?
Infine, il post parlava anche di me. Di me come persona, intendo. Come essere umano. Speciale o banale, simpatico o antipatico, cordiale o sfuggente, sincero o bugiardo, volitivo o sottotono. Presuntuoso o umile, disponibile o beffardo, accorto o menefreghista, costruttore o ignavo, qualitativo o quantitativo. Ma di me come persona in fondo non c’è molto da dire: ogni volta che ci provo mi torna in mente una canzone di Gaber, Il comportamento, e mi passa automaticamente la voglia di discuterne. Figuratevi quando sono altri a parlare di me: non lo so nemmeno io chi sono, figuriamoci il mio prossimo. Voi lo sapete chi siete, l’avete capito subito o per capirlo avete dovuto impegnarvi interi decenni? E lo sapete chi sono i vostri familiari, gli amici, i colleghi con cui lavorate, i pazienti che arrivano in pronto soccorso?
Ogni risposta alle tre domande sarà gradita. E sarà gradito anche il silenzio: perché equivarrebbe a essere in buona compagnia, fra gente che è consapevole di non saper nulla. Anche se poi di te si dice che sei uno con la verità sempre in tasca.