Civati, ossia della comunicazione

di | 9 Dicembre 2013

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Questo post risponde ufficialmente agli ultimi due commenti di Gianni e Matteo: le cui considerazioni, per motivi differenti, condivido. E continua la riflessione sui rapporti tormentati tra le modalità di comunicazione (che come radiologi ci devono interessare a prescindere) e il fallimento della politica che avevo cominciato qui.

In realtà non volevo buttarla sul politico ma solo sull’aneddotico, ma loro mi hanno tirato a cimento: allora dirò quello che penso, come al solito, e confesserò che a me, fra i tre contendenti, piaceva di più Civati. A parte il background culturale di un certo spessore, l’assenza di avvoltoi baffuti sulla spalla e l’assoluta integrità morale del personaggio, mi aveva colpito assai il movimento a suo favore su internet: quello che forse alla fine gli ha fornito illusioni eccessive sull’esito della contesa ed è stato responsabile della sua fin troppo evidente delusione davanti alle telecamere.

Stamattina su internet girava una battuta: “Civati al 13%: adesso sappiamo quanti elettori del PD sono su Twitter“. La battuta non è solo divertente, ma anche molto spietata e rende perfettamente il senso di ciò che è successo. Civati, lo sconosciuto alla riscossa, mai invitato da Fazio, quasi mai citato da televisioni e giornali, ha provato a usare la risorsa democratica per eccellenza: internet. Lo ha fatto con le migliori motivazioni, gli slogan giusti, una forma internettamente adeguata alla sostanza delle sue idee. Ha parlato a chi aveva le orecchie per ascoltarlo, insomma, e poi ha sperato nel passaparola: il che ha funzionato, entro certi limiti, e infatti è schizzato dalla percentuale ridicola raccolta nei circoli a un 13% che, preso come risultato a sé stante, costruito sul nulla, non è malaccio. Affatto.

Poi ci sono altre due considerazioni da fare, non trascurabili: Civati tra i votanti all’estero ha avuto un riscontro strepitoso e, elemento ancor più importante, fra i tre contendenti è quello che ha raccolto più fondi su base volontaristica (più di centomila euro, mica bruscolini).

E allora? Dove è fallito il modello Civati?

Il buon Pippo, secondo me, è caduto su due ostacoli ben precisi. Il ventennio berlusconiano appena trascorso ci ha dimostrato in modo inoppugnabile che l’italiano medio, quando entra in cabina elettorale, pensa con la pancia. Si fida delle minchiate sull’IMU, tanto per capirci, e non si perde in ragionamenti concettuali di ampio respiro. L’italiano medio, lo possiamo dire senza paura di offendere nessuno, non è un mostro di cultura: gli piace godersi i concorrenti di ogni regione che scartano i pacchi in fascia televisiva pre-serale. Gli piacciono le veline con le cosce di fuori che sgambettano accanto al gabibbo. Gli piace vedere Balotelli che fa gol e poi si incazza con la curva sud. Capite bene che, in questo scenario di involuzione culturale promosso alla grande dall’ultimo ventennio berlusconiano, le clarks vissute di Pippo Civati, ma soprattutto le sue idee di cambiamento, ci stanno come il cavolo a merenda. Con buona pace di tutti, Renzi è più bravo a veicolare il messaggio di pancia che gli italiani, a destra e a sinistra, sono abituati a sentirsi comunicare. Ha studiato da premier, e si vede: il suo discorso di insediamento da segretario è stato un comizio elettorale in piena regola, tenuto da un tale che sta guardando già molto oltre l’orizzonte delle bandiere del suo partito.

Ma non è tutto. La vicenda Civati mi ha fatto comprendere una verità che era già sotto gli occhi di tutti, me compreso, ma che io avevo malinteso: l’Italia non è pronta per una veicolazione delle idee su internet. Grillo in aprile è riuscito nel suo colpo di mano non grazie alla rete, come all’epoca avevo pensato, ma grazie alle salve di vaffanculo di cui ci ha fatto dono negli ultimi anni di febbrile attività: l’unica lingua che noi italiani conosciamo e riconosciamo come nostra. Internet è quella terra di nessuno che i radical chic come Pippo dividono con i fanatici compulsivi della pedo-pornografia e gli alfieri della pirateria informatica. Coesistono con questa genìa oscura ma in assoluta minoranza: in questo senso la battuta con cui ho aperto la mia riflessione è assolutamente aderente al vero, e il 13% che ha votato Civati rappresenta probabilmente la quota reale di utenti (di sinistra) che frequenta la Rete per motivi non immorali o quantomeno non del tutto illegali.

Insomma, Civati ha perso; ma a perdere è stata soprattutto la speranza che la comunicazione politica potesse fare il salto di qualità che tutti ci saremmo attesi. Non tanto nei contenuti, quelli li vedremo nei prossimi mesi e anni e non è detto che tutto debba per forza andare in malora, quanto nelle modalità della comunicazione stessa. Ancora una volta la televisione ha battuto internet, noi italiani abbiamo dimostrato di non voler abdicare al ruolo di periferia popolare dell’impero e insomma, scusatemi, oggi se ci penso non mi sento tanto bene.

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