Come demolire il “rinforzo del disegno (o della trama) polmonare e vivere felici

di | 8 Aprile 2011

Avviso ai naviganti: il tema del post è specifico, ultra-specialistico e probabilmente, per i non addetti ai lavori, di una noia mortale. Regolatevi di conseguenza.

COME DEMOLIRE IL RINFORZO DEL DISEGNO (O DELLA TRAMA) POLMONARE E VIVERE PER SEMPRE FELICI E CONTENTI

La mia personale battaglia contro il “rinforzo del disegno (o della trama) polmonare”, il karma della presente esistenza, continua inesorabile. E si struttura come un attacco diretto al cuore dello stato (delle cose).

Per comprendere meglio le dimensioni del problema ho fatto una breve ricerca su Google. Digitate le magiche paroline, ecco ciò che ne è scaturito.

Ventimilacento risultati: di cui la prima pagina, a stragrande maggioranza, esprime la giusta perplessità di chi vorrebbe capire cosa diavolo significa quella fatidica frase che il paziente legge in due referti di radiografie del torace su tre.

Ma faccio ancora altri esempi chiarificatori.

Certo, devo ammettere che anche gli ili “disorganizzati” sono un capolavoro di esoterismo; ma quello è un altro discorso, e lo faremo in un’altra occasione.

Il guaio è che anche senza andare su internet, ma restando vicino a casa, la situazione non cambia. Quando ci si trova davanti a un referto di questo tipo,

e la radiografia a cui ci si riferisce è questa,

è chiaro che la situazione diventa confusa. Cos’è il disegno bronco-vasale? E’ una entità anatomica che possiamo definire in modo preciso? La formula “disegno bronco-vasale” indica una sola struttura anatomica o due strutture anatomiche differenti ma connesse in modo intimo? La risposta corretta è in teoria la seconda: perché, tra radiologi dedicati al torace, per “trama bronco-vasale” (che come definizione comunque lascia un po’ a desiderare, fosse anche solo per la confusione che ingenera in chi ha già di suo le idee confuse) si intende l’insieme delle vie di conduzione (bronchi centrali), dei vasi polmonari e dell’interstizio centrale che li circonda. Ma il termine rinforzo a quale elemento anatomico lo si sta riferendo? Ai vasi, ai bronchi o all’interstizio? E, soprattutto, quale informazione clinica e diagnostica vogliamo fornire a chi ci ha richiesto l’esame radiografico?

Ma non basta. Di fronte a quest’altro referto,

che corrisponde alla seguente radiografia,

cosa dovrà pensare un clinico? Che la formula “accentuato il disegno interstiziale bilateralmente” si riferisca a una patologia polmonare diffusa di qualche tipo? E se si, perché non riusciamo a tradurre questa sensazione visiva in una terminologia comprensibile dal clinico? Perché non riusciamo a parlare di pattern (lineare, reticolare, micronodulare, eccetera) ma ci limitiamo a un termine generico che vuol dire tutto e niente? Forse, verrebbe da dire, perché di pattern riconducibili a una qualche forma di patologia diffusa polmonare in quella radiografia non ce n’è neanche l’ombra.

D’altro canto, volendo essere impietosi, anche la velatura pleuro-polmonare nasconde informazioni che avrebbero potuto essere comunicate in altra maniera. Perché lì c’è versamento pleurico, probabilmente bilaterale; e poi, come ci insegnano ogni giorno le scansioni TC su pazienti con analoghi quadri clinici, c’è sicuramente anche parenchima polmonare atelettasico: in parte perché il paziente ha respirato poco, in parte perché il versamento pleurico occupa spazio, comprime gli alveoli e li schiaccia. E allora anche il termine “velatura” non possiamo inserirlo in una semantica radiologica moderna: perché fa piuttosto parte del retaggio di una paleoradiologia in cui non vigeva (quasi) mai l’abitudine di correlare i segni radiografici alle patologie che i segni stessi dovrebbero sottendere.

Nella pratica quotidiana cerco di tenere sempre a mente le parole che, in un congresso di radiologia toracica risalente a qualche anno fa, sentii pronunciare al professore Zompatori (uno che di torace se ne intende sul serio): “Il termine ‘rinforzo del disegno polmonare’ risale al 1910”. Un secolo fa! E allora, come dico spesso, se è lecito che il mio bisnonno radiologo non sapesse discernere tra vasi, bronchi e interstizio patologico, non posso accettare che oggi il suo bisnipote, anch’egli sventuratamente radiologo, conservi lo stesso livello di ignoranza e referti tale e quale a lui.

E allora partiamo dai fondamentali. Prendete una radiografia del torace negativa e guardatela con attenzione. Nei cosiddetti “campi polmonari” (altra terminologia su cui prima o poi dovremo cimentarci, e con fatica) salta subito all’occhio una reticolazione di strutture lineari e debolmente radiopache: i vasi. Almeno nelle porzioni medio-inferiori dei polmoni le arterie si distinguono per il decorso obliquo in direzione medio-laterale e per la biforcazione dicotomica (da ogni ramo arterioso se ne originano altri due), dopo la quale il calibro del vaso si riduce visibilmente; le vene per il decorso rettilineo e per la confluenza monopodica (ossia più rami venosi minori confluiscono in un ramo maggiore), con altrettanto visibili aumento di calibro dopo la confluenza di ciascuna vena tributaria.

Fin dal primo giorno di specialità, chi ci ha insegnato il mestiere ha subito decretato che in un torace normale si vedono solo i vasi, ma l’interstizio no. L’interstizio si vede solo se è patologico, ipse dixit. Da cui la prima domanda: quanti “rinforzi” che quotidianamente refertiamo sono solo vasi polmonari male interpretati?

Come abbiamo imparato a suo tempo studiando l’esame di fisiologia, per effetto della gravità terrestre la pressione intrapleurica è più negativa agli apici che alle basi del polmone: ne consegue che le regioni apicali si espandono maggiormente, gli alveoli sono più ampi, la pressione alveolare è maggiore di quella vasale arteriosa e venosa e quindi, in stazione eretta e in massimo inspirio, i vasi polmonari apicali tendono a collassare. Alle basi vale il discorso opposto: il rifornimento ematico dipende solo dalla differenza pressoria artero-venosa del polmone e i vasi hanno un calibro maggiore rispetto agli apici (anche perché la pressione idrostatica alla base polmonare è maggiore che agli apici, dunque accentua la dilatazione vascolare). Tradotto in una formula facile da ricordare: il rapporto del calibro tra basi e apici polmonari è 2:1.

Tratto da Lange, Radiologia della Malattie del torace, 2001

Premesso ciò, noi radiologi non dovremmo mai dimenticare che una buona fetta della popolazione radiologica, ossia gli anziani, è affetta da patologie cardiovascolari: ogni volta che il ritorno venoso al polmone è alterato (per esempio nel caso di insufficienza ventricolare sinistra, o di stenosi mitralica), la pressione delle vene polmonari aumenta e viene trasferita alle arterie per l’assenza di valvole nel circolo polmonare. L’aumento pressorio si traduce quasi immediatamente in un aumento di volume ematico intravascolare, e siccome i vasi polmonari hanno la stessa elasticità parietale delle vene sistemiche fanno la cosa più ovvia: si dilatano. E’ chiaro che questa iniziale dilatazione delle vene polmonari si può apprezzare soltanto se si hanno a disposizione molte radiografie seriate nel tempo, altrimenti l’impresa è dura. Più semplice è valutare l’evoluzione successiva della congestione polmonare, ossia la cosiddetta cefalizzazione del flusso polmonare.

La quale si si spiega con due meccanismi di banale fisiologia polmonare. Il primo è che la congestione vascolare riduce la compliance dei polmoni soprattutto nelle regione basali, per ovvi motivi legati alla legge di gravità, e quindi in inspirio i vasi polmonari non riescono a dilatarsi come in condizioni di normalità. Il secondo è che l’ipoventilazione basilare, e la conseguente ipossia, innescano un riflesso (chiamato, dal nome degli scopritori, di von Euler-Liljestrand) che determina vasocostrizione nel territorio ipossico e quindi riduce la perfusione parenchimale. E se il flusso ematico non può perfondere adeguatamente le basi fa ancora una volta la cosa più ovvia: riabita i settori vascolari che normalmente sono collassati, ossia quelli delle regioni apicali. In questo caso il rapporto del calibro tra basi e apici polmonari diventa 1:1, e a volte si può persino invertire (per completezza di informazione, va precisato che i vasi apicali costituiscono una specie di “riserva funzionale” che può essere rapidamente reclutata ogni volta che ci sia necessità: anemia, iperpiressia, uremia, gravidanza, eccetera).

Tutto questo per dire, in un tentativo di grossolana semplificazione, che si può definire una congestione polmonare scompensata (edema interstiziale e alveolare, con tutto il corredo di segni radiologici abbastanza chiari che accompagnano l’evento), e una congestione polmonare ancora compensata che tutto sommato è facile non confondere con altre patologie polmonari: specialmente se il paziente è notoriamente cardiopatico e arriva in radiologia con un inquadramento clinico preciso. Il problema sorge, dal punto di vista del referto radiologico, per diversi motivi.

Il primo è, ovviamente, non capire che l’anomalia della “trama” o del “disegno” polmonare, nel caso specifico, è legata alle sole strutture anatomiche che in condizioni normali si possono vedere sul radiogramma toracico: i vasi polmonari arteriosi e venosi. Lo sforzo iniziale, e direi sovrano, sta nel saper riferire l’orribile termine “rinforzo” alla struttura anatomica interessata (vasi, interstizio). Ci vuole esercizio, e a volte è una sfida complessa; ma non è impossibile riuscirci.

Secondo punto: che semantica adoperiamo. Il seguente referto, che contempla la disperante formula “affastellamento delle strutture in sede sovradiaframmatica sn”,

riferito alla seguente radiografia,

non può non trarre in inganno. Il termine “affastellamento”, che secondo il dizionario Hoepli della lingua italiana indica l’azione e il risultato dell’affastellare, ossia raccogliere in fastelli, laddove il fastello è un grosso fascio di legna, come al solito non vuol dire nulla; o quantomeno non è possibile tradurlo in un’informazione clinicamente utile. Il mio professore associato, durante la scuola di specialità, adoperava questo termine quotidianamente; e io quotidianamente, siccome già all’epoca ero un ragazzo scettico, gliene chiedevo cagione. Finché lui un giorno mi fece un esempio molto calzante: Prendi una scopa, e considera i fili della scopa come se fossero vasi polmonari. Poi schiaccia la scopa a terra: stai “affastellando” i fili della scopa, ossia li stai avvicinando tra loro, allo stesso modo in cui si affastellano i vasi polmonari quando un paziente respira poco e male. Inutile dirlo: quel giorno capii che non avrei mai adoperato in un referto la formula “affastellamento della trama”, perché se proprio devo segnalare che il paziente non ha eseguito un valido inspirio scrivo, semplicemente, che il paziente non ha eseguito un valido inspirio; e non che la “trama” è affastellata. Il che vale ancora di più nel caso precedente, in cui il paziente non solo ha respirato poco ma è anche supino, e dunque “l’affastellamento” è inevitabile come lo tsunami dopo un terremoto in mare aperto (senza contare che il paziente è anziano, e molto, dunque sicuramente i bronchi hanno alterazioni legate all’inevitabile BPCO: da questo punto di vista il “diffuso rinforzo del disegno bronco-vasale” potrebbe avere un suo perché, anche se potrebbe essere chiamato con un’altra e più corretta denominazione). Insomma, quando si referta bisognerebbe sempre pensare alla faccia del clinico nell’atto di comprendere le nostre parole. Abbiate pietà di lui, fosse anche solo per il fatto che è razza in via di estinzione.

Terzo e ultimo punto: l’informazione clinica. Ammesso che il “rinforzo” sia legato a problemi del circolo polmonare, e ammesso che si sia attribuita la giusta paternità al segno radiologico, bisogna poi calare il tutto in un contesto clinico. Ossia: se il paziente è dispnoico anche a riposo, rantola come una caffettiera, ha le gambe gonfie come la nostra nonnina di novant’anni e sputa schiuma rossastra dalla bocca, beh, diciamo che già la clinica ci ha orientato abbastanza verso la diagnosi corretta. A quel punto il bravo radiologo correla, e se è anche coraggioso si sbilancia. Sbilanciarsi non è pericoloso (dal punto di vista delle ritorsioni legali) se abbiamo una base clinica a cui attaccare le nostre conclusioni. Potrebbe invece essere pericoloso il contrario: non sbilanciarsi se si hanno le premesse cliniche e se l’imaging è chiaro. Un giudice potrebbe contestarcelo, specie se sostenuto da un solerte tecnico di parte (il quale, chissà perché, è quasi sempre pronto a indicare la pagliuzza nell’occhio del collega, ignorando la trave che è nel suo).

Bene. Fatta la dovuta premessa sul circolo polmonare, che da solo raccoglie gli onori (quasi sempre immeritati) di circa tre quarti dei “rinforzi” quotidianamente attribuiti dai radiologi italiani, passiamo alle situazioni in cui il “rinforzo del disegno” c’è davvero, e non è legato al circolo polmonare.

Per farlo bisogna fare un passo indietro che in realtà rispetto al radiogramma del torace è un passo avanti epocale: perché solo trenta anni fa, quando ancora non era disponibile la TC, immaginarsi uno scenario del genere era davvero science fiction. Quando ragioniamo di interstiziopatia, o di patologia diffusa del polmone, la nostra unità anatomica di riferimento è il lobulo secondario: ossia la più piccola porzione di parenchima polmonare delimitato da setti connettivali. Un lobulo secondario è una struttura approssimativamente esagonale, delimitata da setti interlobulari (che contengono venule e linfatici) e centrata dall’arteriola centrolobulare (che in condizioni di normalità si vede) e dal  bronchiolo centrolobulare (che in condizioni di normalità non si deve vedere). In mezzo tutto il resto: ossia una rete connettivale (setti intralobulari) che come una specie di ragnatela sostiene gli elementi anatomici deputati agli scambi respiratori: bronchioli respiratori, dotti alveolari, sacchi alveolari e finalmente gli alveoli.

La TC identifica senza difficoltà il lobulo secondario: al punto che è la distribuzione spaziale stessa delle anomalie, e il loro pattern specifico, a limitare il numero delle diagnosi differenziali; e spesso, se si mastica pure un po’ di clinica, persino a sparare la diagnosi corretta. Ma, purtroppo, in una radiografia del torace il lobulo secondario proprio non si vede;  anzi, in condizioni di normalità non si vede proprio un bel niente (tranne, come già detto fino allo sfinimento, i vasi polmonari). E allora, esclusi i vasi, come possiamo decidere a che strutture si riferisce il “rinforzo” che angustia i nostri giorni e le nostre notti? Non c’è scelta: dobbiamo necessariamente concentrarci sul patologico, e più nello specifico concentrarci sulla più piccola unità funzionale che, in presenza di patologia, è possibile individuare radiograficamente: l’acino. L’acino è la porzione di parenchima polmonare situata distalmente al bronchiolo terminale. Qualcuno (Pump, 1969) si è preso la briga di misurarne i diametri in un polmone gonfiato a una pressione equivalente a quella espiratoria, e ha trovato diametri di circa 7.5 x 8.5 mm. Adesso, detta così sembra una nozione per monomaniaci, ma tra un po’ vedrete che ha la sua importanza speculativa.

Il concetto basilare è che dal punto di vista radiografico, tolti i vasi di cui abbiamo già discusso in precedenza, tutte le malattie polmonari che determinano aumento della densità parenchimale (ce ne sono anche che la riducono, ovviamente) modificano gli spazi aerei, l’interstizio o, più spesso, entrambe queste componenti insieme. Il problema è come distinguere la componente interessata, o per meglio dire interessata in modo preponderante, per dare legittima paternità al “rinforzo” che stiamo disperatamente cercando di descrivere.

Una prima situazione interessante è quando l’aria che normalmente si trova negli acini viene sostituita: da liquidi come sangue o essudato, o da tessuto solido come nel caso delle neoplasie. E’ ovvio che in questi casi vengono interessati più acini contigui, e qualche volta possono essere identificate piccole e sfumate opacità del diametro di circa 5-7 mm: guarda caso, direbbe a questo punto il dottor Pump (gongolando), proprio le dimensioni del mio acino insufflato a pressione espiratoria. Perché qualunque sia la schifezza che invade gli alveoli, state sicuri che essa tenderà a invadere anche quelli vicini: una classica via di fuga è data dai pori di Kohn, che sono piccole brecce della parete alveolare attraverso cui gli alveoli comunicano con quelli vicini; ma esistono anche altri canali di ventilazione collaterale. Il problema è che il fronte d’onda della patologia non è uniforme, ma coinvolge solo alcuni gruppi di acini lasciando indenni parte di quelli adiacenti. Il risultato è un addensamento parenchimale a morfologia variabile, con i margini sfumati proprio perché gli acini vengono coinvolti a grossi gruppi; e al cui interno è possibile individuare i bronchi che contengono aria (segno del broncogramma aereo) e gli acini risparmiati dal processo patologico (segno dell’alveologramma aereo). Nella mia scuola di specialità questo tipo di addensamento veniva estrosamente denominato “nubecolare”, per sottolinearne l’aspetto sfumato come in questa radiografia

o in quest’altra,

e rappresenta in modo degno ciò che la buonanima di Benjamin Felson (padre della radiologia toracica moderna, al quale non saremo mai abbastanza grati per la lezione lasciata in eredità) chiamava sindrome alveolare. Ogni volta che refertate una broncopolmonite vi trovate di fronte a una sindrome alveolare. Idem dicasi per l’edema o l’emorragia polmonare, per esempio, o per neoplasie come il carcinoma bronchiolo-alveolare; o ancora per tutta la serie di patologie polmonari di diversa natura e dovute a differenti cause che condividono il pattern della polmonite organizzativa (quella che una volta veniva chiamata BOOP).

Ma in questi casi è lecito parlare di rinforzo della trama o del disegno? Beh, in un certo senso si, perché un acino ripieno di materiale patologico è certamente “rinforzato” rispetto alla totale trasparenza di un acino sano: ma noi radiologi, perbacco, non ci facciamo saltare la mosca al naso. Quando c’è la sindrome alveolare parliamo chiaro, e non scriviamo “rinforzo”. Scriviamo invece, con un certo orgoglio di categoria, “addensamento parenchimale”. Che poi è il termine corretto da usare perché la densità parenchimale polmonare, nel patologico, può fare solo due cose: aumentare o diminuire (aumenta, per inciso, anche nelle atelettasie: ma possiamo dare per scontato che tutti i radiologi chiamino le atelettasie con il loro nome di battesimo, e non cerchino di spacciarle per qualche tipo di “rinforzo”. Almeno si spera).

Quindi: abbiamo levato di mezzo i vasi, e poi abbiamo levato di mezzo anche gli alveoli polmonari. Cosa resta? Resta l’interstizio, ovvio. Dell’interstizio abbiamo parlato prima a pezzi e bocconi: sappiamo che esiste un interstizio centrale (che circonda vasi e bronchi dall’ilo fino al lobulo secondario, dove prende il nome di interstizio centrolobulare), un interstizio perilobulare (lo steccato che circonda e delimita i lobuli secondari) e un interstizio intralobulare (la tela di ragno che sostiene gli spazi respiratori più distali, tesa a ponte tra gli altri due). E sappiamo, soprattutto, che nessuna di queste strutture è  normalmente visibile nel radiogramma normale del torace.

Nella TC a strato submillimetrico che si pratica con le moderne apparecchiature multistrato è relativamente semplice individuare i quattro patterns fondamentali di interessamento interstiziale: reticolare, nodulare, alveolare o cistico. E la distribuzione topografica di queste alterazioni nel contesto del lobulo secondario ci permette, se sostenuti da perizia clinica e sufficiente cuor di leone, di dire la nostra sulla faccenda. Ma davanti a un radiogramma del torace a volte persino San Felson si scoraggiava. E già: perché talora il pattern, se correlato alla clinica, è significativo anche su una radiografia del torace; ma la maggior parte delle volte no. E allora come ci si può regolare?

In questo campo abbiamo solo due certezze: la prima è che se la malattia è (prevalentemente) interstiziale gli acini contengono ancora la loro aria (a volte un po’ meno, se il loro volume è ridotto da fenomeni di fibrosi), e dunque la caratteristica principale delle malattie interstiziali diffuse è la disomogeneità delle lesioni che la caratterizzano. La seconda certezza è che in una interstiziopatia non capita di frequente che le vie respiratorie siano interessate in modo massivo. Se ne inferisce quindi che, non essendoci ostacoli al passaggio dell’aria, non ci si trovi davanti a riduzioni del volume polmonare per ostruzioni delle vie respiratorie (come capita, più o meno, nei vari tipi di atelettasia). E’ chiaro che un polmone fibrotico e a fine corsa avrà un volume ridotto, ma per ben altri motivi.

Il mio professore associato (sempre lui) mi aveva insegnato un piccolo trucco. Le sindromi alveolari, coinvolgendo gruppi non omogenei di acini, hanno quasi sempre un fronte d’onda sfumato: la sfumatura dipende dalla contiguità tra gruppi di acini patologici e gruppi di acini sani. Le sindromi interstiziali invece, coinvolgendo i tessuti che circondano le vie aeree, mostrano quasi sempre lesioni a margini netti. E’ chiaro che questo assioma va preso con le molle, perché non corrisponde a perenne verità: basti pensate a tutte le patologie interstiziali che si manifestano con un pattern ground glass (aumento della densità parenchimale polmonare con visibilità dei vasi sottostanti; a differenza dell’addensamento, che i vasi sottostanti li maschera completamente). Ma a volte può essere di aiuto.

Allora forse è questo il segreto del vero “rinforzo del disegno polmonare”?

Un pattern micronodulare come nel caso di questa sarcoidosi,

o un pattern reticolare come nel caso di questo edema interstiziale (corredato da strie di Kerley A e B),

o un pattern a “nido d’ape” come nel caso di questa UIP?

Non lo sapremo mai. E d’altronde poco importa, perché in ogni caso il problema è sempre lo stesso: chiamare le cose con il proprio nome. Le malattie interstiziali diffuse, per grazia divina, sono tutte caratterizzate da un pattern (a volte da più di uno, ma in questo momento è meglio non infierire). Su una radiografia del torace il pattern a volte si riconosce e a volte no: però ciò che si vede è quasi sempre sufficiente a definire se una “sindrome” è alveolare o interstiziale, o peggio ancora mista.

Da questo il passo per arrivare a demolire la formula “rinforzo della trama (o del disegno) interstiziale” è breve: basta decidere quale delle strutture polmonari è realmente interessata dal processo patologico. E poi scriverlo nel referto. Perché a parole possiamo dire quello che vogliamo, ma il referto resta in eterno. E ci qualifica come professionisti, in un senso o nell’altro.

Un ringraziamento particolare va alle due persone che durante gli anni del mio corso di specializzazione, in tempi e modi differenti, decisero che valeva la pena di perdere un po’ di tempo con il sottoscritto per chiarirgli le idee sulla differenza tra patologia polmonare interstiziale e non interstiziale (in poche parole, sul “rinforzo della trama polmonare”): il professor Pier Nuccio Scutellari e la dottoressa Antonietta Cinotti. Entrambi in seguito continuarono a usare nei loro referti la formula esecrata, ma posso garantire che loro la differenza tra i diversi tipi di “rinforzo” la conoscevano bene.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  1. Felson. Radiologia del torace. Piccin, 1986.
  2. Parè-Fraser. Diagnosi delle malattie del torace. Verduci Editore, 1990.
  3. Lange. Radiologia delle malattie del torace. Verduci Editore, 1991.
  4. Marano. La radiologia funzionale del torace. Ed. Libreria Cortina Verona, 1986.
  5. Maffesanti-Dal Piaz. Pneumopatie infiltrative diffuse. Springer, 2004.

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