Immaginatela: ottantasei anni, una nonna in sovrappeso con le ginocchia da elefante; un ciuffo di peli sul mento e uno sul labbro superiore; claudicante, perché a quell’età e con quel peso come fai a negarti un po’ di sana artrosi. Ma gli occhi, ah, quelli azzurri, svegli, pieni di vita. Che lasciano intuire una bellezza lontana e dimenticata.
La nonnina era nata, ottantasei anni fa, in Veneto; e poi emigrata, perché in Italia sono esistite anche le emigrazioni alla rovescia, nell’agro pontino, ai tempi in cui Mussolini aveva deciso di bonificare quelle terre (curioso il fatto che siano stati chiamati dei veneti a bonificare le paludi pontine, ma anche le emigrazioni al contrario sono misteri nazionali). Alcune peripezie familiari e poi il colpo di genio: un ristorante a Tivoli.
Sapeste come ne va ancora fiera del suo ristorante, la nonnina veneto-laziale! Mi ha detto, con quel suo accento romanesco così incongruente rispetto al cognome che termina con una consonante: Salvo il Papa, da me ce so’ passati tutti, ma proprio tutti. E poi: La cucina è un’arte, bisogna sperimentare, fare tentativi, insomma divertirse.
E sicuro che ce l’ha ancora, la faccia di una che nella vita si è divertita. Poi, quando non ce l’ha fatta più a tenere il ristorante, ha raggiunto il figlio in Veneto. Adesso abita in un paesino di campagna della marca trevigiana, e cucina ancora. E contribuisce a fare l’Italia: la domenica raduna le sue amiche e insegna loro a cucinare. Dice, con una smorfia sul volto: La cucina veneta non è granché, due piatti, poca robba*. Insegna alle amiche la ricetta dei tonnarelli cacio e pepe, della carbonara, dell’abbacchio. Ancora si divertono: e, mentre si divertono, le nonnine si scambiano pezzi di Italia, quelli che in 150 anni non siamo ancora riusciti a scambiarci perché ha ragione chi lo dice, siamo popoli diversi e ognuno doveva andare per la sua strada. Perché se mai un’unificazione avesse dovuto realizzarsi, beh, non andava fatta con la violenza bruta che l’ha contraddistinta, non andava fatta da invasori piemontesi il cui re non si è nemmeno preso la briga di cambiare il nome a paese “unito” (giusto perché fosse chiaro il suo punto di vista sulla faccenda), non andava fatta con la benedizione della corona inglese e delle loro spie massoniche che l’avevano preparata accuratamente, non andava fatta con quegli avanzi di galera che erano Garibaldi e i suoi scagnozzi, non andava fatta con quel cattivo maestro che era Mazzini, non andava fatta distruggendo interi paesi, devastando terre, deportando famiglie, impoverendo regioni che solo dieci anni prima erano ricche, non andava fatta con l’umiliazione ma con la consapevolezza, andava fatta come una unificazione, appunto, e non come un’annessione che ha sparso più sangue di quanto chiunque di noi possa immaginare.
Ecco perché sorrido amaro quando vedo all’opera gli organizzatori del 150° anniversario dell’unità: si muovono nel silenzio, nell’indifferenza, a volte persino imbarazzati; come Giuliano Amato al museo di Garibaldi, costretto a declamare davanti alle telecamere le gesta del cosiddetto eroe dei due mondi con, immagino, un senso di vergogna infinito nel cuore. Un silenzio, un’indifferenza che trovano un solo contrappunto: quelli che vaneggiano in parlamento di questione settentrionale, e con il tricolore ci si puliscono il culo (e chissà che non abbiano ragione loro).
Un mio collega, persona assolutamente degna di stima, ieri a mensa mi ha detto: Secondo me con la secessione staremmo meglio tutti. Gli ho risposto che è vero, che è vero senza ombra di dubbio. E che esiste un motivo preciso per cui la secessione non verrà mai fatta: perché la secessione è proprio al nord che non conviene, non al sud.
Oppure è meglio rassegnarsi e fare come la nonnina veneto-laziale: lei si che la sta facendo l’Italia, sul serio. Unendo culture, distribuendo esperienze di vita che passano anche per quello che mangiamo in tavola. Fa molto più lei, per l’unità d’Italia, che questa tristezza di commemorazione formale.
La quale neanche a farlo apposta cade, ironia della sorte, nel più squallido momento politico di sempre.
* NdA. Io, da profano della arti culinarie, assolutamente non condivido il suo punto di vista. Adoro la cucina veneta, e in generale adoro tutto il Veneto. E posso dirlo perché, a differenza di altri che ci si riempiono la bocca a parole , anche io la sto facendo sul serio, l’unità d’Italia. Come la nonnina: con i fatti.