Di recente ho avuto la ventura, si può proprio dire così, di fare due chiacchiere con un direttore di azienda dalle caratteristiche insolite, almeno nel nostro paese: una donna.
Una donna, immagino, che per farsi strada fin sulla cima in un paese enormemente maschilista come è ancora l’Italia ai tempi della crisi, deve aver dimostrato non solo competenza in senso generale, ma una competenza straordinaria, di fronte alla quale i suoi omologhi di sesso maschile non hanno avuto nessuna possibilità di opporre resistenza.
Eppure, io credo che chi l’abbia scelta per quel ruolo non si sia basato solo sulla competenza personale. Il direttore, parlando del suo lavoro, sia pur nei termini generici che una conversazione di quel tipo impone, mi ha dato l’idea di conoscere perfettamente la situazione della sua azienda. Quando parli con quella precisione delle criticità della struttura che dirigi, dividendola per comparti, e citando per nome e cognome i problemi di ognuno e le risorse che hai a disposizione, vuol dire che quell’ambiente lavorativo lo conosci come le tue tasche: che poi è la base fondamentale per amministrarlo, un viatico essenziale per la buona riuscita dei tuoi sforzi di gestione.
A fine conversazione, due cose su tutte mi hanno colpito profondamente: la prima è che ci fossero elementi del personale, forse più capaci di altri o forse con particolari peculiarità professionali, su cui lei avesse progetti individuali. Progetti non in senso generale, capite bene, ma sulle singole persone: chiamate ancora una volta per nome e cognome. Il che vuol dire, immagino, avere lungimiranza: perché se è vero, come è vero, che in un ambiente lavorativo tutti sono utili ma nessuno è indispensabile, è anche vero che c’è sempre chi vale più degli altri; e che le risorse vanno valorizzate a ogni costo.
La seconda, quella che mi ha davvero stupito, è che parlando di una succursale dell’azienda ha raccontato di come fosse problematica la situazione al suo arrivo, e di che impegno avesse profuso nel cercare di rimettere in piedi una situazione disastrata. Alla fine, mi è parso di aver capito, l’opera di ristrutturazione deve essere andata a buon fine; tanto che lei alla fine ha commentato, cito a memoria: Posso dire che quella succursale adesso me la sto proprio godendo.
Ecco, è proprio questa frase finale che mi ha lasciato senza parole. Perché quando usi quel preciso verbo, godere, in genere lo riferisci a un figlio, a un coniuge, a un amico caro, al massimo al tuo cane. E in genere non lo usi quando parli di un luogo di lavoro che rimettere in sesto ti è costato fatica, sudore e smadonnate tra i denti.
Io, lo confesso, ne sono rimasto affascinato. E confesso anche di non sapere se questo genere di atteggiamento positivamente costruttivo, questa cura per le persone e per gli ambienti che insieme compongono un luogo di lavoro, e persino l’aver perduto tre quarti d’ora del proprio tempo lavorativo a discuterne con un perfetto sconosciuto davanti a un caffè, sia legato solo alle capacità intrinseche della persona o se giochi un ruolo importante il fatto stesso di essere una donna.
Io credo di si, comunque: e, come uomo, mi sembra di avere una marcia in meno ma qualche speranza in più per il futuro.