Mi chiedo spesso, nelle ultime settimane, cosa accadrà quando le altalenanti fortune dello spread avranno fine con un tonfo clamoroso nel definitivo default.
Mi chiedo che aspetto avrà il mio ospedale, quel giorno, proprio quel giorno in cui i nostri stipendi di dipendenti pubblici nati con la camicia saranno decurtati del 50%. O quel Natale in cui, regalo di Babbo Natale, in busta paga non ci sarà più la tredicesima.
Che faccia avremo, noi medici, quel giorno? Avremo un sorriso finto stampato sulla faccia o un ghigno criminale a deformarcela? Quanti di noi esprimeranno a voce alta, in mezzo ai corridoi dell’ospedale, le proprie considerazioni circa gli eventi e chi li ha pilotati fino al punto di rottura?
E il nostro lavoro, quel giorno, come cambierà? Le liste saranno piene zeppe come adesso o si contrarranno? Allo scadere della trentottesima ora lavorativa settimanale, che in genere si realizza il mercoledì o al massimo il giovedì, che faremo? Rimarremo in reparto a finire il lavoro o ci sarà un fuggi fuggi generale verso le strutture private della provincia, in cui un’ecografia dell’addome ci sarà pagata otto euro lordi?
E quando le nostre apparecchiature diventeranno troppo obsolete per continuare a lavorarci, ma non ci saranno soldi disponibili per sostituirle, in che modo spiegheremo ai pazienti quella frase prestampata in fondo al referto: Si declina qualunque responsabilità per errori diagnostici non direttamente legati alla competenza medica ma all’obsolescenza delle apparecchiature radiologiche adoperate”?
E i pazienti? Ve lo immaginate un pronto soccorso vuoto perché il ticket costa 92 euro e tanto vale farlo morire nel letto di casa il nonno ottuagenario? Ci sarà di nuovo la coda dal tiraossi per farsi sistemare la caviglia slogata in cambio di una pagnotta di pane appena sfornato?
Comunque sia, una risposta c’è. Forse non la migliore, non la più intellettualmente onesta; sicuramente non quella che ci guadagnerà il Paradiso. Ma è la risposta che tutti si attendono da noi.