In questo periodo di ferie, vi assicuro, ho riflettuto molto. Ho pensato a me, alla mia vita (lavorativa e non), a cosa farò da grande. Ho rivisto criticamente le mie scelte professionali, i rapporti lavorativi intessuti in questi ultimi anni. Ho cercato di mettere ordine nella pletora di eventi, per lo più positivi, accaduti dal 2008 a oggi; e ho cercato di dare un senso anche alle vicende che invece sono finite male.
Conseguenza inevitabile: l’analisi si è estesa molto oltre la mia umile persona e ha coinvolto la situazione politica attuale, sanitaria e non, locale e non, alla quale i miei destini ormai saranno indissolubilmente legati almeno per i prossimi vent’anni (salvo che non decida di cambiare lavoro e/o paese: eventualità da tenere comunque in considerazione perché nella vita, come è noto, non si sa mai).
Una cosa, alla fine di queste estenuanti riflessioni, forse l’ho capita. I mass media ci ammorbano la vita da anni con gli stessi problemi: la crisi, lo spread, il debito pubblico, il lavoro. Chiunque affronti il problema, da qualunque punto di vista e per quanto sparato possa partire nelle intenzioni, finisce per incartarsi. Questo è un paese quasi impossibile da governare perché in tempi di difficoltà emerge la nostra autentica natura nazionale: siamo un agglomerato di popoli differenti, ognuno pensa prima ai cazzi propri e solo dopo, se avanza tempo e voglia, a quelli della collettività.
Ma c’è un denominatore comune alle attuali avversità italiane, qualunque sia il campo della res publica a cui volgiamo attenzione: i dilettanti allo sbaraglio. Persone senza adeguato spessore culturale, con preparazione specifica assente o insufficiente, e comunque prive di esperienza sul campo, messe a gestire affari molto più grandi di loro. Persone di cui i pennivendoli prezzolati elogiano in modo commovente l’impegno e lo studio, mentre noialtri avremmo bisogno di personaggi autorevoli che (sembra scontato, ma non contateci) abbiano già studiato l’argomento, lo conoscano come le loro tasche, magari per averci lavorato a lungo, e quindi siano in grado di portare subito risultati concreti subito e progettualità sulla lunga distanza. Vi faccio un esempio: a me, come semplice medico, non sono richiesti impegno e studio ma i puri e semplici risultati. Non è previsto che io debba studiare per mettermi in pari con i miei obiettivi: per quello ho già dato, grazie, studio e laurea sono stati la vettura che mi ha condotto al mio mestiere. Aggiornarsi vuol dire restare al passo, studiare vuol dire che non sei in grado di fare quel mestiere. Immaginate quindi cosa bisognerebbe chiedere a un ministro, in proporzione, per la enorme responsabilità che la sua carica riveste.
Questo non vale solo a livello ministeriale, ovvio, o regionale in senso lato. Restando nel mio, ossia il campo sanitario, andrebbe detto forte e chiaro che questa strategia votata all’approssimazione di comodo non è più tollerabile e ora, adesso o mai più, è il tempo di rimettere tutto in discussione. Tutti coloro che in un modo o nell’altro si occupano di sanità devono convenire nella necessità assoluta di un cambio marcia: che si tratti di miopi responsabili regionali con visioni sfocate del futuro sanitario o di amministratori ospedalieri con mentalità da fine ‘800 che scelgono un duttile mediocre come guida di un reparto ospedaliero perché così si illudono di avere meno problemi gestionali. E invece sapete una cosa? Questo è il momento di averli, i problemi gestionali, e averne a pacchi. Di correre qualche rischio, anche grosso. Di allargare una volta per tutte gli orizzonti angusti in cui chi amministra gli ospedali si è voluto rinchiudere all’unico scopo di non perdere il controllo del fortino, come se i poveri risultati ottenuti finora fossero un viatico sufficiente a continuare lungo una strada dichiaratamente perdente.
Ma il problema, ripeto, non è solo politico-amministrativo. In questo periodo, e sempre per restare nel mio campo, ci metto dentro anche quello societario radiologico. Proveniamo da anni di gestione SIRM monocratica, rigidissima, chiusa a scambi con la cosiddetta base, caratterizzata da elezioni bulgare in cui chi vince non ha mai contraddittorio e non è mai del tutto chiaro chi sia a perdere e perché. Lo dico con cognizione di causa perché ricevo lettere a pacchi sull’argomento (un giorno pubblicherò un libro di lettere al blogger, e ci faremo quattro risate) e tutte sostengono la stessa posizione: è ora di dare una svolta alla direzione della nave, i soci non si sentono rappresentati, la distanza vertice-base aumenta e le prime conseguenze di tutto ciò sono le (patetiche, per quanto mi riguarda) spinte centrifughe che ogni tanto qualche signorotto del borgo minaccia di mettere in atto. Anche qui ci vogliono scelte di rottura completa con il passato: il futuro obbligato sta nella connessione dei sistemi con qualunque altro sistema esterno, complementare o alternativo al proprio, e la qualità della connessione sarà unicamente funzione della sua velocità e pluridirezionalità. Chi non comprende questa lampante evidenza è miope e destinato a soccombere. Chi si limiterà ad alzare muri, o rinforzare quelli già esistenti, si ritroverà padrone di un fortino deserto tra neanche troppo tempo.
Insomma, la parola d’ordine per il futuro mi sembra sempre la stessa, qualunque sia il punto di vista da cui guardo il mondo: coraggio delle scelte. La famosa frase di Steve Jobs, talmente abusata da risultare ormai stucchevole, contiene in realtà l’unica vera ricetta di sopravvivenza: o saremo sul serio affamati e folli o meriteremo di estinguerci. Qualunque sia il nostro mestiere.
Siamo chiamati a scelte coraggiose, ficcatevelo bene in testa: la più importante delle quali, lo dico a rischio di essere sgradevole, sta nel riconoscere i propri limiti prima ancora delle proprie potenzialità e cercare di far bene e onestamente quel poco che si sa fare, non ambire a immeritati e mal pilotati riconoscimenti. Oppure svolgere in modo coscienzioso e aderente alle leggi il proprio dovere, in qualunque circostanza, e non piegare le leggi stesse al volere di qualcuno che desidera aggirarle per i propri personali comodi (ci siamo capiti, vero?). Insomma, questo è il momento di prendere posizione, anche contro i nostri stessi interessi, sapendo per certo che sulla base di queste posizioni saremo giudicati duramente da chi verrà dopo di noi. Certo, sarà sempre molto più facile proclamare la volontà di cambiamento nell’intimità del proprio ufficio e poi sottostare alle solite logiche italiche di sempre, metà proni al potere e metà ai propri interessi personali. Ma a quel punto non potremo più lamentarci; e un altro mondo non sarà più possibile se a scegliere per noi saranno ancora i dilettanti allo sbaraglio che riempiono le inutili pagine dei quotidiani e dei rotocalchi settimanali estivi.
A quel punto l’unica cosa che potremo fare, per chi non ha già cominciato ora, sarà vergognarcene. Ma la vergogna è la convivente meno impegnativa di tutte: un paio di giorni di difficoltà e poi tutti, ma proprio tutti, imparano a viverci insieme senza tanti problemi. Il che, d’altro canto, rappresenta da sempre la croce e la salvezza dell’italico medio.