Uscendo dall’ospedale, questa sera, come tutte le altre sere, sono sfilato davanti ai piccoli manifesti mortuari che tappezzano il breve corridoio che porta in strada. In uno di questi manifesti c’era la foto di una donna: poco sopra i cinquanta, una bandana colorata in testa, le guance smagrite e gli occhi stralunati di chi ha appena terminato l’ultimo ciclo di chemioterapia. Morta da poco, forse da poche ore appena. Una foto straziante.
Ecco, io non conosco i motivi delle trame che sottendono le nostre uscite di scena. Non sono a conoscenza delle leggi non scritte che regolano le dinamiche delle nostre esistenze. Potrei avere fede, è vero, credere che ci siano ragioni trascendenti che vanno molto oltre quelle della mia insignificante persona. Ma una morte del genere, la morte di una donna giovane, per un medico rimane quello che è: una sconfitta vergognosa. Morti come questa dovrebbero richiamarci tutti, indipendentemente dal ruoli che rivestiamo in un ospedale, alla causa comune che dichiariamo di perseguire.
A me non frega una mazza della crisi economica, e con le norme della spending review non posso dirvi cosa mi ci pulirei perché siamo in fascia protetta. A me non interessano le dinamiche di mercato, non ho alcuna empatia per chi parla di politiche sanitarie senza sapere nemmeno cosa sta dicendo. Non mi piacciono i dirigenti che non conoscono uno per uno i propri collaboratori, i nomi dei loro figli, i loro problemi di salute, ma vanno in giro a parlare di pareggi di bilancio come se invece di un ospedale fossimo al ministero del Tesoro. Io ho in testa una sola cosa: le persone, i loro drammi familiari, la paura che perseguita il sonno dei giusti di chi non sa nemmeno cosa sarà di lui l’indomani mattina. Ed è per questo motivo, perché io le persone spaventate a morte le incontro ogni santo giorno della mia vita lavorativa e guardo bene in faccia la loro paura, che mi risulta intollerabile questo autismo organizzativo per il quale operatori sanitari e pazienti finiscono per essere un numero tra tanti, ingranaggi di un meccanismo smisurato di cui si ignorano persino le coordinate e che alla fine smette di avere la funzione per cui è stato creato e diventa una specie di mostro mitologico tendente all’autarchia.
Ecco perché vorrei così tanto rimettere al centro del palcoscenico le persone: da una parte e dall’altra. Perché una guerra del genere si può affrontare solo tutti insieme, con sforzi coordinati, con la massima attenzione alle esigenze di chi si sporca le mani in questo lago di merda; si può affrontare e vincere solo se si fa fronte comune, se la si smette di considerare il proprio lavoro una catena di seccature e chi lavora accanto a noi una minaccia alla nostra personale tranquillità. Questa è una sporca guerra, e come tutte le guerre necessita di strategia e tattica, di coordinamento e sincronia tra le parti. La nostra parte, in questa vicenda, è smadonnare a denti stretti in trincea strappando metro per metro il terreno al nemico, mangiando polvere, respirando gas tossici, marcendo sotto piogge autunnali interminabili. Ma non da soli, no.
Insomma, vorrei che ogni mattina e ogni sera, guardandoci allo specchio, noi sapessimo di aver fatto sempre il massimo, il massimo possibile, e di averlo fatto senza pensare a quanti cazzo di soldi ce ne verranno in tasca, a che genere di possibilità professionali potrebbero aprirsi per noi, a cosa dirà di noi il nostro capo se le cose saranno fatte per bene. Vorrei che avessimo fatto qualcosa bene per il solo piacere, per la sola responsabilità di averla fatta bene, e condividere il piacere e la responsabilità con tutti quelli che ci lavorano accanto. Magari quella donna giovane morirà lo stesso: ma non da sola, non senza che tutto il possibile sia stato fatto, non senza che l’unica cosa rimasta di lei siano quello sguardo stralunato e quelle guance smagrite che ci accusano di aver fallito. Perché invece di preoccuparci di lei pensavamo ad altro, a tutt’altro, a cose che con il nostro mestiere non c’entrano davvero nulla.