Districarsi, in metropolitana, è difficile. Già madre natura mi ha dotato di un senso dell’orientamento piuttosto carente, e poi qui si aggiunge anche la scarsa cortesia dei locali: una signora anziana ci mette un secondo più del dovuto a infilare il biglietto nel lettore della porta scorrevole e già in due dietro di lei cominciano a sbuffare. Mentre avanzo seguendo il flusso della folla noto con la coda dell’occhio stranieri di vario genere e grado che vendono mercanzie: mi sembra di intuire nei loro gesti e sguardi una sorta di codice gerarchico, un equilibrio instabile fondato su diversi livelli di prevaricazione. Quando venni per la prima volta quassù, moltissimi anni fa, i ragazzi in metro esibivano all’indirizzo dei coetanei sguardi di sfida costante: non è cambiato nulla, forse solo l’abbigliamento, insomma siamo passati dai giubbotti imbottiti ai cappellini infilati di traverso e a ferraglia infilata ovunque. Mi fa una certa impressione pensare che i loro predecessori del 1985 adesso hanno dai quaranta ai cinquanta anni, mi chiedo che direzione possano aver preso le loro vite e se le facce di sfida che esibivano a sedici anni abbiano trovato un serio corrispettivo nella vita adulta? Tutto ciò, devo proprio dirlo, mi rinforza nella convinzione che c’è una sola cosa degna di essere insegnata a un figlio: non bisogna mai far nulla, nella vita, che possa farti vergognare o sentirti in imbarazzo quando diventi vecchio.