Arrivo a Verona e sgambetto fino a un albergo che da fuori sembra il castello medievale delle fiabe, poi si entra e, con la seguente cronologia di eventi, capita quanto segue:
1. La responsabile dell’accettazione mi fa aspettare qualcosa come venti minuti al desk: un po’ perché ha altre persone davanti, il che andrebbe pure bene nel paese del Mulino Bianco, ma anche perché interrompe di continuo le procedure per rispondere al telefono in un inglese maccheronico tipo quello di Benigni all’Oscar e scambia petulanti informazioni con la collega di banco mentre gli astanti devastati dalla stanchezza sclerano in massa.
2. Mi viene consegnata una chiave magnetica smagnetizzata, che all’atto pratico mi fa sentire come un deficiente mentre, tutto sudato e con le luci a tempo del corridoio che si spengono ogni due minuti, cerco inutilmente di attivare la maledetta serratura della stanza. In quei momenti, lo giuro, mi viene da rimpiangere i tempi non remoti in cui negli alberghi ti veniva consegnata una chiave piccina col portachiavi che pesava tre tonnellate, che quando lo mettevi in tasca sembrava avessi un’ernia inguinale da urgenza chirurgica, ma che almeno le porte le apriva. Alla fine mi arrendo: chiamo aiuto con il tasto apposito, sito di fianco alla serratura magnetica, ma non viene nessuno in soccorso. Il che comporta dover percorrere a ritroso le scale fino alla hall, valigia al seguito, smadonnando a denti stretti, per farmela sostituire.
3. Penetro alfine nel sancta sanctorum e la stanza mi inquieta come quando tagli a metà una bella mela rossa e scopri che dentro è marcia: non c’è una sola presa di corrente accanto al letto, per mettere in carica il cellulare a momenti sono costretto a spostare i mobili della stanza e la tavoletta del cesso è sbeccata. Adesso, ragazzi, va bene tutto, ma non è che il fatto di sorgere a meno di un chilometro dall’Arena vi autorizza a svaccarvi come se foste un qualunque ostello della gioventù.
4. Cerco di collegarmi al Wi-Fi gratuito e mi chiedono, in successione, numero di cellulare, domanda segreta a cui rispondere e altre varie modulistiche per compilare le quali perderei almeno un’ora di lavoro. Lasciamo perdere, insomma, vuol dire che userò l’hotspot del mio iPhone: ma sappiate che nell’albergo di Rovereto, pochi giorni fa, grande e prestigioso un decimo del vostro, neanche entrato in stanza ed ero già connesso a internet sulla fiducia, senza dover sottostare a nessun terzo grado del tenente Sheridan.
Insomma, siamo qui: speriamo almeno nella colazione di domattina.
Che poi comincia il congresso: e il vostro fedele cronista, non temete, vi terrà aggiornati.