Quando ho iniziato a occuparmi di questo blog avevo una preoccupazione prevaricante: volevo che gli internauti non sapessero chi ero, come mi chiamavo e dove lavoravo. Non saprei spiegarne i motivi precisi: forse tutti noi, in fondo, abbiamo paura del babau Internet, che qualcuno ci spii di nascosto, controlli le nostre vite nascosto dal segreto delle sue fibre ultra veloci, eccetera. Una delle sindromi di questi anni malati, pavento: l’insicurezza cronica nei nostri mezzi, il timore di perdere quel minimo di indipendenza e di libertà che ancora ci rimane.
Poi, con il tempo, ho cambiato idea. Non fa niente che chi viene a visitarmi sappia dove lavoro o conosca me e il mio ospedale: è un altro modo per condividere con il prossimo ciò che ho scelto di condividere nel momento stesso in cui il blog è stato aperto.
Il problema sorge in tre circostanze differenti, che negli ultimi giorni neanche a farlo apposta si sono tutte realizzate: per esempio, quando un collega mi guarda e dice: Sai, ieri ho fatto un giro sul tuo blog. Bene, penso io. Quel sorrisino lì è perché ti è piaciuto o perché lo hai trovato stucchevole? Quello che hai letto ti ha fatto cambiare l’idea che avevi sul mio conto o l’ha rinforzata? Ma anche queste considerazioni lasciano il tempo che trovano: dopo i 40, posso affermarlo per esperienza personale, il giudizio del prossimo diventa meno essenziale e vincolante di quando ne hai la metà (e poi il mio blog è bellissimo, visto con l’occhio orgoglioso del suo papà, per la solita metafora dello scarrafone).
Poi può capitare, e negli ultimi tempi mi capita sempre più di frequente, che sia uno specializzando a fermarmi per strada: Io la seguo sul blog, sono contento di conoscerla, grazie per quello che fa per noi studenti, finalmente la vedo anche di persona. Inutile dirlo, quando i ragazzi mi parlano in questo modo mi sciolgo come un gelato al sole: il blog è pensato e costruito, soprattutto, per loro. Va benissimo che mi conoscano anche di persona: dietro lo pseudonimo Gaddo c’è Giancarlo, ex specializzando, attualmente strutturato felice con specializzandi al seguito, che si ricorda benissimo cosa vuol dire smazzarsi quattro cinque anni di durissima e spesso incomprensibile specialità (dopo la quale, dicevo oggi a un futuro collega, il difficile è provare a dimenticare quello che di sbagliato ti hanno insegnato).
La terza eventualità è la più impegnativa di tutti: quando a scoprire che hai un blog è il tuo paziente tipo, quello che segui da anni, che punta i piedi a terra perché l’esame vuole farlo solo con te e con nessun altro, che viene a trovarti a Natale per portarti una bottiglia di vino o soltanto un saluto, che peraltro va bene lo stesso, e ti chiama in reparto per raccontarti come sta dopo l’ultimo ciclo di cure. In quel caso cosa bisogna fare? Finta di niente? Negare di essere proprio quel Gaddo lì di unradiologo.net? Minimizzare la questione, liquidarla come un aspetto poco importante della propria esperienza personale e lavorativa? Non lo so. Il mio paziente, tre giorni fa, mi ha detto di essere rimasto sorpreso in positivo dalle riflessioni lette sul blog; ma a qualcun altro questa doppia vita potrebbe far fastidio o minare la fiducia nei miei mezzi, per quanto ne so. Eppure, signori, questo sono io, e non ci posso fare nulla. Come spero abbiano appurato i ragazzi fantastici che ho conosciuto in questi due giorni qui a Verona, io sono proprio come mi leggono, non esiste nessun velo, nessuno schermo tra me e quello che scrivo qui sopra. Nessun piedistallo da cui pontificare al mondo: siamo tutti nella stessa barca, remiamo fino allo stremo e fine corsa approderemo o andremo a picco.
Ma tutti insieme.