Così, dopo due anni in cui è successo veramente di tutto, rieccomi in viaggio per il Congressone SIRM. Quest’anno la meta è Napoli, città controversa nei pressi della quale ho avuto la ventura di nascere e crescere, per cui in un certo senso è come se stessi tornando a casa per qualche giorno. Sebbene la vera casa che ci è toccata in sorte dal destino, come tutti voi sapete bene, non è quasi mai quella in cui si è nati: e la banalità di questo pensiero mi trafigge proprio mentre il Freccia Rossa passa senza fermarsi per Ferrara, ossia il luogo in cui sono diventato uomo (e poi medico e poi ancora radiologo, incidentalmente).
C’è stato un attimo, in stazione, di autentico sollazzo. Me ne stavo lì, fermo, ad attendere il primo regionale, quando i miei occhi hanno realizzato la scena: accanto a me, e anche sul binario di fronte, tutti con lo smartphone in mano. Grandi, piccoli, anziani, bambini, seduti, in piedi, deambulanti: tutti con gli occhi sul piccolo schermo del telefono cellulare. Chi a leggere la posta, chi a chattare su uozzapp, chi a postare foto su Instagram. A un certo punto ho incrociato lo sguardo di un signore che camminava nel senso opposto al mio leggendo un noto libro che insegna a smettere di fumare, e senza parlare ci siamo sorrisi: due alieni in un mondo ipertecnologizzato e innaturale, nel quale l’orizzonte è contratto allo schermo traslucido dello smartphone. Certe volte, e lo dico con una certa amarezza, è meglio non avere scuse per doverlo usare.
E parto con in testa il ricordo amaro dell’ultimo turno ecografico. Sono prossimo a finire la lista, e pure abbastanza stanco perché per partire senza troppo lavoro indietro ho fatto una non-stop radiologica 8-19. Vado a chiamare il paziente di turno: lui si alza di malavoglia, mi risponde abbastanza scorbuticamente e continua in questo suo atteggiamento anche quando lo introduco nella sezione e gli indico lo spogliatoio. Boh, penso io, avrà i suoi buoni motivi per essere così poco gentile; ma in fondo non me ne frega granché, voglio solo finire la giornata e andare a casa a fare la valigia.
Il paziente esce dallo spogliatoio, si siede sul lettino e attende che io inserisca i suoi dati nel RIS. Dopo due secondi dice, seccato: Ma insomma, mi dici dov’è il medico?
Mi giro, lo guardo. Dico: Sono io, il medico.
Come, è lei?
Certo che sono io.
Lui si aggronda, le orecchie gli si abbassano all’istante. Mi scusi tanto se sono stato così brusco, dice. Pensavo che lei fosse l’infermiere.
Io non ho voglia di fare polemica, giuro, sono solo molto stanco e provato da giornate piene di piccoli e grandi problemi da risolvere. Però non mi riesco a trattenere. Ma mi spieghi una cosa, dico. Se io fossi stato davvero l’infermiere si sarebbe sentito giustificato a trattarmi con quella maleducazione?
Il paziente tace e io non ho voglia di continuare la conversazione. Finisco l’ecografia, gli spiego gentilmente cosa ho trovato e lo congedo con il referto in mano. Buonasera, buonasera; e io rimango lì, seduto davanti al PC, a pensare a come sono involute le modalità di comunicazione del genere umano. Quando ero piccolo ricordo che mio nonno, quando andava in visita dal medico, faceva una doccia supplementare e indossava giacca e cravatta; adesso non di rado mi entra in diagnostica gente con in testa il cappello da rapper girato al contrario, o in infradito e canottiera, e comunque con un grado di igiene personale non adeguato alla bisogna. E magari pure con i modi scortesi: ma solo se sei infermiere, perché se sei medico in genere stanno buoni e tranquilli, e nemmeno sempre. Forse sono i segni del tramonto dell’occidente, come canta Mario Venuti (il cui disco, che si intitola proprio Il tramonto dell’occidente, vi invito caldamente ad ascoltare): un tramonto ineluttabile come quello del sole.
Ma adesso non ho voglia di pensarci. Adesso mi rimetto comodo sulla poltrona in pelle umana del Freccia Rossa, mi riguardo i power point e poi arrivo a Napoli. Restate collegati.