Cronache del virus fetente #06

di | 5 Aprile 2020

Giorgio arrivò giovedì scorso, di pomeriggio.

Nella nostra terapia intensiva era appena morta una signora anziana: aveva i capelli raccolti in una crocchia, come le nonne di una volta, e un viso gentilissimo. Meno di un’ora dopo avevano già telefonato in reparto per chiederci, con una timidezza del tutto inadeguata alla situazione di crisi che viviamo da settimane, se fosse possibile smaltire rapidamente il corpo. Proprio così: smaltire il corpo. Come se fosse un sacchetto dell’umido da portare nel bidone sotto casa.

Così, al posto della vecchia signora, arrivò Marco. Quasi cinquant’anni, messo malissimo, respirava come se l’aria fosse densa come un budino. Sistemandolo nel letto ci accorgemmo delle sue braccia tatuate: non c’era un centimetro quadrato di pelle libero, in quella teoria psichedelica di croci, piante rampicanti, visi di donna e rosari post-atomici. Su uno dei due avambracci c’era una scritta, l’unica: La potenza è nulla senza controllo. Pensai, in quel preciso momento, che nulla di più vero fosse mai stato scritto. In tutti i libri del mondo.

Poi lo abbiamo curarizzato, pronato e tenuto sotto controllo come un bambino piccolo, come fosse un figlio nostro. Il mercoledì successivo, o forse il giovedì, andava così tanto meglio che avevo pensato di estubarlo: ma i miei colleghi non erano d’accordo, mi mettevano in testa mille dubbi sullo svezzamento troppo rapido perché, dicevano, ti rendi conto di cosa vorrebbe dire reintubarlo un’altra volta?

Però, il pomeriggio dopo, al risveglio dopo una notte di guardia devastante, accesi il cellulare e c’era il whatsapp del primario nel gruppo del reparto: aveva deciso di estubarlo, si era preso tutta la responsabilità e lo aveva fatto. Passai il pomeriggio in un’estasi indescrivibile, mi sentivo come quando l’Italia vinse i mondiali nel 1982, incredulo e felicissimo, di una gioia tanto più grande quanto più era stata inattesa e insperata.

Ma ieri sera, di ritorno in ospedale per la guardia notturna, Giorgio respirava di nuovo male e aveva il cuore a mille. La mia collega mi guardava con gli occhi lucidi mentre diceva: Secondo te bisogna che lo reintubiamo? E invece, per fortuna, abbiamo saputo attendere ancora un po’, fino a capire finalmente che il problema erano i farmaci: glieli avevamo ridotti troppo in fretta, Giorgio era in una specie di astinenza. Però la notte l’ha passata bene, nel suo casco C-pap, e aveva sete, e ci ha chiesto mille volte di bere, e ha bevuto un casino.

Stamattina stava davvero meglio, ho provato a togliergli il casco. Gli ho chiesto: Come si chiama tua moglie? La sua voce era ancora strana, ci mette un po’ di tempo a tornare normale dopo l’estubazione, mentre mi rispondeva: Non è mia moglie, però viviamo insieme da dodici anni e abbiamo un figlio insieme.

Gli ho chiesto se avesse un cellulare: gli infermieri lo avevano già messo a caricare, ho solo dovuto staccare la spina e darglielo. Giorgio tremava come una foglia, non riusciva a trovare in rubrica il nome della compagna e ho dovuto aiutarlo io: era registrata con il nome “Amore” e l’icona con una margherita. Ha fatto partire la videochiamata e io mi sono immaginato l’ansia bruciante di una donna che ha il marito, o il compagno, ricoverato in terapia intensiva e sente squillare il telefono alle sette di mattina. E poi la sorpresa e la gioia folle di vedere che era una videochiamata proprio di lui, il marito dato quasi per morto. Piangeva Giorgio, piangeva la compagna, piangeva il figlio, che intanto era accorso dalla sua cameretta. E piangevo anche io, come una fontana.

A un certo punto si è girato verso di me, mi ha fatto l’occhiolino e ha detto: Certo che la barba me l’avete tagliata proprio male, vi pare che posso presentarmi così a lei?

E io: Altro che barba, dille che ti abbiamo salvato il culo.

E lei rideva e piangeva, ancora, rideva e piangeva insieme. Sembrava una matta felice.

Ecco com’è la vita, qui da noi, in queste settimane. Forse una piccola goccia l’abbiamo tirata su anche noi, da questo enorme oceano di sofferenze; ma per uno che si salva ecco che ne arrivano altri due, e vanno malissimo, e allora portiamo pazienza, tutti, e tiriamo avanti.

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