Si parla tanto di management, di corretta gestione dei flussi di lavoro (e dei rischi connessi al flusso, sovente sovradimensionato rispetto agli organici e alle apparecchiature disponibili), di ottimizzazione delle risorse, eppure l’idea che hanno di questi argomenti la maggior parte dei colleghi che mi scrivono e/o mi porgono quesiti e considerazioni sul tema è piuttosto nebulosa. Non nel senso che ai miei colleghi manchi l’esatta percezione dei vari bug che rendono difficoltosa l’attività lavorativa quotidiana: loro, i miei colleghi, conoscono perfettamente problemi e soluzioni ai problemi. La nebulosità è a livelli superiori: in luoghi dove siccome la percezione dei problemi è, a sua volta, nebulosa, le soluzioni non sono mirate, logiche e rapide come ci si aspetterebbe.
Ma non sempre, però. In una delle ultime riunioni in direzione sanitaria è saltato fuori un banale accorgimento pratico che pemetterebbe a noi radiologi di rendere più fluido il lavoro e seguire attivamente l’evoluzione del nostro mestiere verso una più marcata impronta clinica. Che poi, neanche a dirlo, è il futuro obbligato della radiologia e della medicina stessa.
Piccolo test per radiologi. State facendo un’ecografia e vi viene un dubbio su un nodulo epatico. Cosa fate normalmente? Lo descrivete nel referto con la massima accuratezza e poi, sperando che non vi areniate sopra la malefica formula “a giudizio clinico“, consigliate il corretto approfondimento diagnostico. Il quale, nella fattispecie, potrebbe essere un’ecografia con il mezzo di contrasto, una TC o una risonanza magnetica. Perfetto. Il paziente a questo punto aspetta sette giorni lavorativi, poi ritira il referto e si reca dal suo medico di famiglia. Il quale legge il vostro mefitico “a giudizio clinico” (proprio non ce l’avete fatta a evitarlo, vero?) e, senza soffermarsi un solo secondo a pensarci su, decide che non è il caso di porsi il problema del giudizio (clinico) e che non rientra nelle sue mansioni di medico di medicina generale discutere il caso con il radiologo; fosse anche solo per imparare qualcosa sui moderni algoritmi diagnostici e sul perchè in date circostanze sia più opportuno un esame di un altro. Quindi trascrive la prestazione radiologica e la consegna al paziente; il quale si reca al centro prenotazioni e si fa dare il primo appuntamento disponibile. Nel mentre, a occhio e croce, sono passati venti giorni: venti giorni persi con grande sbattimento del paziente, che magari lavora e non si può permettere tre ore di attesa nello studio del suo medico di famiglia; e del medico di famiglia stesso, che con quel famigerato “a giudizio clinico” avete inchiodato al suo triste destino di amanuense per conto terzi.
E se invece esistesse un’altra possibilità di risolvere il problema? Per esempio, partendo dall’evidenza che lo specialista dell’imaging è il radiologo, ed è lui che in teoria e pure per legge dovrebbe decidere l’iter diagnostico più corretto, sarebbe sufficiente non delegare il giudizio clinico a terze persone ma assumersene piena responsabilità; e metterlo in atto subito, come competerebbe al vero radiologo clinico. Insomma, quello che voglio dirvi è che a breve nel mio reparto cominceremo un esperimento innovativo: insieme al referto radiologico e al cd con le immagini il paziente troverà anche, nel caso che il radiologo abbia ravvisato gli estremi per richiedere un esame di secondo livello, l’impegnativa per quell’esame da lui preparata e firmata e la data dell’appuntamento. Sarà eventualmente cura del paziente modificare la data, se impossibilitato quel giorno a presentarsi nel mio reparto, ma scommetto la pellaccia che ben in pochi rimanderanno il pasto se gli si sarà presentata la pappa già pronta in tavola.
Ecco, questa è l’idea. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensate, medici ma anche pazienti; e se qualcuno l’ha già messa in atto nel proprio reparto sarei ulteriormente grato se mi mettesse a parte dei risultati della sua esperienza. Che poi magari ci riaggiorniamo.