David Foster Wallace, con ogni probabilità, era un genio. Uno di quelli con la marcia in più, giusto per capirci. Quando alcuni critici letterari parlano di lui come di una delle menti americane più brillanti degli ultimi cento anni non stanno esagerando: si limitano a enunciare un fatto che ha lo stesso valore assoluto della legge di gravitazione universale.
Così, quando ho letto il testo del discorso che tenne nel 2005 al Kenyon College in occasione della cerimonia delle lauree, ho subito pensato che il pensiero di Wallace fosse agli esatti antipodi di quello che Steve Jobs espresse in una analoga ma ben più nota occasione.
Nel suo discorso, come lui stesso afferma, Jobs ci dichiara in modo molto franco la fede incrollabile che nutre nei confronti del suo ombelico, fede che lo condusse a risultati strabilianti e, forse, nel suo campo specifico anche irripetibili. Wallace, di contro, incentra tutto il suo pensiero sullo sforzo educativo necessario, ai fini della nostra crescita come individui, a sradicare l’asse di rotazione dell’universo dal nostro ombelico per proiettarlo al di fuori di noi stessi.
È una faticaccia infame, ne convengo, ma ogni tanto fa bene considerare l’ipotesi di non essere il centro universo conosciuto e che non tutti i puntini dietro le nostre spalle siano fatti per essere uniti e darci così il senso della nostra assoluta compiutezza (o incompiutezza, per chi anche unendoli non ha realizzato alcun disegno intelligibile).
Prendete questa breve lettura come il suggerimento estivo di un lontano amico, e mentre siete sdraiati sotto il solleone pensateci un po’ su. E se poi dovesse venirvi voglia di leggere anche i libri di Wallace, beh, allora tanto meglio.