Nel canto XXVI dell’Inferno Dante narra dell’incontro con Ulisse: proprio lui, l’eroe omerico. Quello che permise agli Achei, con la furbata leggendaria del cavallo, di vincere la guerra di Troia; e poi, visto che dopo la furbata buona parte degli dei olimpici si erano un tantinello incazzati con lui, fu costretto a peregrinare per altri dieci anni nel Mediterraneo prima di poter riapprodare a casa sua, a Itaca.
Noi tutti, chiusa l’ultima pagina dell’Odissea, ci saremmo attesi un Ulisse talmente sfinito dalle fatiche belliche e post-belliche (ma in fondo il greco nelle sue peregrinazioni si era anche parecchio divertito, diciamolo pure), che complessivamente lo tennero impegnato per un buon ventennio, da rinunciare a qualunque velleità di navigatore da lì al giorno della sua morte. Dante invece ribalta il punto di vista comune e ci propone un Ulisse vecchio ma non domo, che guarda il mare con la nostalgia bruciante del marinaio di lungo corso e addirittura propone ai suoi vecchi compagni di navigazione di rimettersi in mare; e loro, che non sono da meno, accettano. Navigando giungono in prossimità delle colonne d’Ercole, cioè il confine sacro che Dio stesso ha vietato agli uomini di oltrepassare: metafora, immagino, delle irrazionali limitazioni che noi uomini ci imponiamo da soli, e da secoli. Lì Ulisse, con la sua famosa orazion picciola, cerca di convincerli a varcare quel confine: non siamo fatti per vivere come bestie, dice alla fine, ma per imparare a essere migliori a e conoscere il mondo. Nemmeno a dirlo, i suoi uomini non aspettavano altro: e quindi oltrepassano, tutti insieme, il confine.
Cinque mesi dopo giungono in vista della montagna del Purgatorio: ma adesso il Padreterno non scherza più, quella è davvero una terra sulla quale gli uomini vivi non possono sbarcare. Per cui l’allegria iniziale dei marinai si traduce quasi immediatamente in dramma, quando una tempesta improvvisa travolge la loro imbarcazione e la cola a picco. Vi propongo gli ultimi versi del canto:
Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;
ché de la nova terra un turbo nacque
e percosse del legno il primo canto.
Tre volte il fé girar con tutte l’acque;
a la quarta levar la poppa in suso
e la prora ire in giù, com’altrui piacque,
infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso.
Terribile e meraviglioso quel richiuso: la conclusione mirabile con cui Dante descrive il mare che ritorna placido appena la nave di Ulisse è affondata, come se una pietra tombale fosse stata calata sui resti degli incauti viaggiatori.
Esiste insomma un livello di azzurrità incomparabile oltre il quale è impossibile non perdersi: quantomeno con la fantasia, ossia con ciò che conta davvero. Ci sono parapetti, lungo certe costiere cilentane, dalle quali si guarda l’orizzonte ed è facile comprendere i motivi che spinsero l’Ulisse dantesco a riprendere il largo con i compagni di una vita intera di peregrinazioni marittime. E quindi diventa altrettanto facile comprendere i motivi di certe scelte apparentemente contraddittorie, sulle quali è fin troppo facile esprimere pareri critici e sovente superficiali.
La verità è che noi non siamo fatti per strisciare, non siamo fatti per tane sotterranee, non siamo fatti per la fatica paranoide della formica e nemmeno per la beata inettitudine della cicala. La nostra natura è il volo, la solenne ubriacatura delle ali che compensa ampiamente il rischio dello schianto a terra. La nostra natura sta nel sublime coraggio della navigazione in terre inesplorate, nel resistere alle tempeste che schiantano gli alberi maestri delle nostre imbarcazioni ma non ci possono impedire di arrivare a destinazione, sia pure abbrancati al legno spaccato del pontile.
Ecco perché ammiro chi rischia, chi preferisce l’errore coraggioso al rimpianto sterile di una vita intera. La porta di casa mia, per queste persone, sarà sempre aperta. E anche la prua della mia nave: perché non so voi, ma io non ho smesso ancora di salpare per terre che non conosco. E senza una ciurma di marinai squinternati non si naviga da nessuna parte, verso nessuna nuova avventura, e comunque non nella direzione dell’isola che non c’è.